Hegel: lo Spirito soggettivo

La filosofia dello Spirito

Abbiamo visto che l’idea, per trovare piena realizzazione e autentica autocoscienza, deve uscire fuori di sé, riflettersi nella realtà effettiva, extralogica. Nella Filosofia della natura, essa si è alienata, si è rintracciata nella natura, è diventata natura ma, a causa delle intrinseche contraddizioni di questa e del prevalere dell’esteriorità, l’idea deve abbandonare la natura: ritorna a sé dalla sua alterità, acquistando coscienza di sé e divenendo, come dice Hegel, Idea in-sé e per-sé. Questo passaggio tuttavia non è stato vano perché l’idea si è riconosciuta come libertà. Tuttavia, per la sua natura concettuale, l’idea potrà realizzarsi solo in una realtà altrettanto concettuale, lo Spirito. Come momento dialetticamente conclusivo, ossia come risultato del processo (dell’autoprocesso), lo Spirito è la più alta definizione dell’Assoluto. Lo Spirito hegeliano è il corrispettivo filosofico di quello che nella religione è Dio. Se l’idea è la “possibilità logica” dello Spirito, lo Spirito è la vivente attualizzazione di questa possibilità. La conoscenza dello Spirito è conoscenza dell’uomo in sé, nella sua essenza che è appunto quella di un essere spirituale produttore di realtà ideali, creatore di cultura e storia.

Anche per lo Spirito vale lo stesso discorso: la sua vera essenza non si presenta con chiarezza fin dal principio ma è il risultato di un processo dialettico che si articola in tre momenti: spirito soggettivo, spirito oggettivo e spirito assoluto. Lo Spirito è il momento della consapevolezza ed emerge dalla natura attraverso l’uomo, che comincia a divenire cosciente prima a livello individuale, come SPIRITO SOGGETTIVO, cioè come un insieme di stati e disposizioni mentali propri di un determinato soggetto singolo; poi, come SPIRITO OGGETTIVO, nell’unità con gli altri uomini e nelle espressioni di questa unità (ad esempio la famiglia o lo Stato) che indipendenti dal singolo individuo; infine nella sintesi di questi due momenti, cioè nello SPIRITO ASSOLUTO, che è l’insieme della conoscenza umana, è l’Idea che conosce se stessa e conosce tutto l’esistente nella sua processualità, che si sa come principio e come verità di tutto, avendo anche consapevolezza di questa conoscenza.

Lo SPIRITO SOGGETTIVO è l’emergere della spiritualità dalla natura mediante l’uomo: è l’ambito del mentale. Si torna, dunque, a considerare il tema del pensiero e della coscienza che era già stata trattata nella Logica, con la differenza che ora coscienza e pensiero si presentano in una veste concreta, cioè come facoltà mentali di un individuo in carne ed ossa. Anche questo momento si divide in tre stadi interni: l’antropologia, che ha per oggetto l’anima, termine che Hegel desume dalla filosofia aristotelica e, in particolare, dal De anima dello Stagirita. Hegel però intende l’anima non in termini metafisici, ma biologici, come ciò che fa sì che gli animali siano tali: è l’insieme delle elementari funzioni psichiche di tipo sensitivo-vegetativo, dunque il principio vivificatore del corpo. Il momento dell’anima funge da cerniera tra filosofia della natura e filosofia dello spirito: pur essendo qualcosa di spirituale, l’anima è molto prossima alla vita biologica della natura. Infatti, il primo momento dell’antropologia, quello dell’anima naturale, è quello ancora del sonno dello Spirito, per cui lo Spirito non è ancora consapevole di sé. Lo Spirito è nella sua fase aurorale e le sue manifestazioni sono strettamente determinate e connesse con la base naturale e sensibile da cui scaturiscono. In questo primo momento, l’anima è Spirito naturale, è «anima universale» o «anima mondiale»; essa poi si particolarizza nelle differenze specifiche della Terra dovuto all’influenza che esercita l’ambiente geografico (condizioni climatiche e morfologiche), dando luogo agli «spiriti locali», cioè alle differenti razze, le diverse etnie. Il comportamento umano dipende quindi dalle condizioni naturali, ossia da fattori esterni, quali razza, sesso, età (cioè le diverse tappe dello sviluppo dell’individuo, dall’infanzia alla vecchiaia); pertanto è istinto, è reazione automatica a stati di piacere e di dolore; è una serie di abitudini e di comportamenti irriflessivi. Infine si singolarizza nei soggetti individuali, nell’anima dei singoli uomini. Converrà sottolineare che questo momento, come gli altri, va letto sia in chiave storica, sia come naturalità che si conserva in ogni individuo, poiché ogni singolo momento dello sviluppo dello Spirito viene superato e mantenuto in quelli successivi. Quindi in ogni uomo si conserva la naturalità, ma subordinata alla coscienza, si conserva la coscienza come subordinata alla libertà ecc. Il secondo momento dell’antropologia, l’anima senziente, viene interpretato da Hegel come un risveglio dell’anima, che comincia, nel suo relazionarsi con la realtà attraverso i sensi, a distinguersi dal corpo. Rientrano in quest’ambito anche le passioni dell’animo (ira, coraggio) nonché i fenomeni più oscuri della vita psichica, come il sonnambulismo, la follia, in cui si produce uno scollamento tra vita interiore e realtà. L’anima senziente produce la differenziazione tra soggetto ed oggetto, che prelude alla coscienza. Si giunge così al terzo momento, l’anima reale, in cui l’anima è perfettamente “incarnata” nel corpo ma allo stesso tempo distinta da esso. Con questa fase, l’individualità muove verso la consapevolezza di sé propria del momento successivo, la fenomenologia dello Spirito, che trova così una sua collocazione all’interno del sistema, tralasciando però le parti storiche, quali la dialettica servo-padrone o la coscienza infelice, ma mantenendo i momenti della coscienza, autocoscienza e ragione, considerati qui nel loro determinarsi nella storia, cioè nel loro divenire in quanto momenti dello sviluppo complessivo dello Spirito. Se con l’anima lo spirito è ancora legato al mondo naturale, in questo stadio viene meno il forte legame con la corporeità che caratterizzava l’anima, di conseguenza ora al centro dell’attenzione non c’è più il contrasto tra individuo e realtà ma l’opposizione è tra soggetto pensante e ciò che non è pensiero. Con la coscienza si assume consapevolezza dell’unità tra soggetto e oggetto. Con la ragione l’individuo raggiunge la certezza che le sue determinazioni sono tanto oggettive, – determinazioni dell’essenza delle cose, – quanto suoi propri pensieri[1]. In altri termini, al pensiero corrisponde la realtà, nella quale ritroviamo la stessa struttura del nostro pensiero. Questa certezza segna il compimento dello Spirito soggettivo, che si sviluppa nei tre momenti della PsicologiaIn questa tappa, lo spirito si riconosce in tre diverse funzioni, già peraltro colte da Kant. La prima funzione dello spirito, Spirito teoretico, comprende l’esame delle diverse facoltà conoscitive umane e quindi l’azione dell’oggetto sul soggetto (l’intuizione, la rappresentazione, l’immaginazione, la memoria, il pensiero), che nel loro insieme costituiscono la conoscenza del mondo come realtà omogenea. Il secondo momento, Spirito pratico, sottolinea il prevalere del momento della volontà in cui l’azione è determinata indipendentemente dalla ragione; è l’analisi dei motivi del comportamento umano, dell’azione del soggetto sull’oggetto (il sentimento pratico, gli impulsi, la felicità). Il terzo momento, Spirito libero, è la sintesi dei primi due in quanto in esso la conoscenza costituisce il fondamento della prassi, cioè del comportamento, che è indipendente dagli impulsi irriflessi e si presenta come libera determinazione della volontà; è lo spirito che prende coscienza di sé stesso come volontà libera. Essere liberi vuol dire effettuare scelte razionali, in base alla conoscenza, vuol dire scegliere e sapere ciò che si sceglie: si è liberi quando si sa ciò che si vuole e si vuole ciò che si sa. In questo momento, il singolo non solo supera i limiti della soggettività ma riconosce come fondamento dell’azione il volere universale, comune agli altri; questo permette il passaggio da spirito soggettivo a spirito oggettivo, dall’uomo alle sue realizzazioni: una volta che lo spirito soggettivo è passato per l’anima e per la coscienza, deve agire sulla realtà e lo fa uscendo fuori di sé per produrre il mondo umano, ovvero lo spirito oggettivo. Lo spirito libero, dunque, tende necessariamente a darsi una veste oggettiva esce da un livello embrionale e imperfetto di libertà, ancora legata all’arbitrarietà soggettiva. È proprio l’arbitrio nella vita psichica individuale a far emergere l’insufficienza della dimensione soggettiva. Solo negando l’arbitrio individuale, che resta vincolato alla sua stessa contingenza, si può accedere al territorio proprio della libertà spirituale: lo spirito oggettivo. La tappa può essere letta in chiave di esteriorizzazione dell’uomo nelle sue produzioni, così come l’Idea si esteriorizza nella natura: la differenza, però, sta nel fatto che con la natura l’Idea si esteriorizza inconsapevolmente nello spazio, con lo spirito oggettivo, invece, vi è un’esteriorizzazione consapevole nel tempo. La conseguenza immediata è che c’è evoluzione solo nello spirito e non nella natura (in quanto fuori dal tempo), la quale presenta gradi diversi di sviluppo (la scimmia è superiore rispetto al pipistrello) ma si tratta di gradi atemporali. Solo lo spirito può dunque produrre qualcosa di nuovo nel tempo e lo fa oggettivandosi (spirito oggettivo) nelle istituzioni esistenti storicamente e concretamente. È lo spirito libero che permette il passaggio da spirito soggettivo a spirito oggettivo, dall’uomo singolo alle realizzazioni della collettività.

[1]Enciclopedia delle scienze filosofiche, par. 439, p. 429

John Maynard Keynes e il ruolo dello Stato

Nelle convulsioni seguite alla “grande crisi” sparì definitivamente il modello di Stato liberale così come si era definito nella sua versione più tipicamente ottocentesca. Era lo Stato “guardiano notturno”, che si limitava, cioè, a stabilire poche regole essenziali per l’economia e la società civile, a gestire la polizia, le prigioni e le forze armate per fronteggiare le minacce interne all’ordine pubblico e gli eventuali pericoli provenienti dall’esterno. Quando questi scenari cambiarono drammaticamente, lo Stato fu costretto a misurarsi con compiti e funzioni di proporzioni vastissime. La vera emergenza, lo abbiamo visto, era la disoccupazione di massa, in una catena causale che si snodava attraverso questi elementi: difficoltà del mercato ad assorbire le merci prodotte, diminuzione dei consumi, contrazione della produzione, licenziamenti, disoccupazione. Questo schema indicava automaticamente l’ambito di intervento strategico dello Stato: la priorità sociale era non lasciar deprimere i consumi, anche a costo di una contenuta perdita del bilancio statale, sfatando così il mito del pareggio, caro alla vecchia scuola liberista.
Fu l’economista John Maynard Keynes (1883-1946) il maggiore fautore di questa linea che ispirò, di fatto, le grandi strategie di politica economica degli anni Trenta. Docente all’università di Cambridge e collaboratore del Tesoro britannico, dovette la sua fama a un libro, la Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, pubblicato nel 1936, nel quale formulò un’interpretazione del funzionamento del capitalismo alternativa alla teoria classica dell’autoregolazione del mercato.
Per Keynes era essenziale che lo Stato intervenisse direttamente nei circuiti economici, da un lato stimolando negli industriali la propensione a tenere alto il volume degli investimenti, dall’altro utilizzando la spesa pubblica (sia attraverso i sussidi ai disoccupati, sia attraverso i grandi lavori pubblici) per mantenere elevato il numero dei potenziali consumatori, consentendo livelli produttivi altrettanto elevati e quindi in grado di riassorbire la disoccupazione. La riflessione keynesiana si spostava a questo punto sui salari, che per le imprese sono costo, ma che per il sistema nel suo complesso sono soprattutto potere d’acquisto. Per rilanciare la domanda le imprese avrebbero dovuto attivare una politica di aumenti generalizzati dei salari che avrebbe cozzato con la struttura dei costi: in un sistema concorrenziale aperto, l’ideale per ogni imprenditore sarebbe che aumentassero i salari e gli stipendi delle altre aziende, in modo da trarne vantaggio sia sul piano dei prezzi sia su quello delle vendite. Per superare questa contraddizione che il sistema delle imprese e il mercato da soli non possono risolvere, lo Stato può promuovere la crescita della domanda attraverso iniezioni di potere d’acquisto delle famiglie senza farle ricadere sui costi delle imprese. La spesa statale, attraverso lavori pubblici, sussidi alla disoccupazione, erogazione gratuita di servizi collettivi, come istruzione e assistenza sanitaria, pensioni ed esenzioni fiscali, diventa uno straordinario stimolo ai consumi che integrano quelli garantiti dal mercato.
Un’ultima questione posta da Keynes riguarda la compatibilità tra intervento pubblico ed economia di mercato. Keynes infatti era profondamente contrario al dirigismo economico fascista e stalinista e quindi nell’elaborazione della sua teoria economica si era preoccupato evitare che il potere di regolazione affidato alla mano pubblica non deprimesse gli impulsi privati che costituivano il principale fattore di sviluppo economico. Il Welfare ipotizzato da Keynes risolve il dilemma perché non sottrae agli imprenditori il potere decisionale su cosa e come produrre, né tanto meno interviene sui rapporti tra capitale e lavoro: lo stato utilizza il suo potere di intervento sui processi distributivi della ricchezza per garantire una utilizzazione massima delle risorse economiche salvaguardando al contempo i redditi dei lavoratori e la redditività degli investimenti produttivi.
Lo Stato “interventista” però, non fu semplicemente una risposta congiunturale alla crisi. L’estensione della spesa pubblica in funzione di regolamentazione del ciclo economico segnalò il progressivo dilatarsi del ruolo della politica economica statale, ridefinendo drasticamente la distinzione tra economia pubblica e interessi privati, lasciando incerte le linee di demarcazione tra capitalismo di Stato e capitalismo privato. Queste drastiche modifiche nel rapporto Stato-mercato furono il riferimento strutturale di una progressiva invasività dello Stato nei confronti della società civile, che avviava una commistione pubblico/privato destinata a durare nel tempo, ben al di là del periodo della “grande trasformazione”. Si pensi – nel caso italiano – a enti come le aziende del turismo, le opere pie, le casse mutue e le associazioni di varia assistenza per invalidi, orfani, pensionati, gli enti fieristici, le camere di commercio, i consorzi di bonifica, di istruzione tecnica, tutti chiamati a gestire direttamente interessi privati coordinandoli però con finalità pubbliche.
Lo Stato intervenne quindi sia direttamente, diventando padrone e imprenditore, sia indirettamente. La prima scelta comportò la nazionalizzazione di interi settori dell’economia e fu seguita soprattutto dalla Francia che, nel 1936, statalizzò le ferrovie e le industrie di guerra. Nell’insieme, però, la nazionalizzazione restò un fenomeno marginale, limitato ai settori di pubblica utilità (trasporti, armamenti) la cui redditività era giudicata insoddisfacente dal capitale privato. Si preferì in generale responsabilizzare l’industria privata, raccomandando l’autocontrollo della produzione così da accantonare, almeno per un momento, la ferocia della libera concorrenza, per farsi carico degli interessi generali e concordare in seno alle organizzazioni degli imprenditori le misure per razionalizzare la produzione settore per settore.

Anassagora

Anassagora: i semi infiniti e l’intelletto

Come già aveva fatto Empedocle, anche Anassagora – nato nel 500 a.C. a Clazomene, in lonia – si pone il problema di conciliare i divieti logici parmenidei con un’indagine sulla natura che sia sensata e in qualche modo rispettosa dei dati fenomenici. Comune è quindi l’esigenza di dare una spiegazione al mutamento, al divenire della natura, a seguito del diffondersi tra i centri culturali della Grecia continentale e insulare della conoscenza dell’essere parmenideo tutto intero e sempre identico a se stesso. A lui, tuttavia – che è stato il primo filosofo attivo ad Atene e che faceva parte di un gruppo di intellettuali vicini a Pericle – le radici empedoclee devono apparire insufficienti per giustificare l’infinita varietà del mondo e delle cose che lo abitano.

Per questo motivo postula una sorta di stadio primordiale in cui tutto si trova in tutto; si tratta di un magma primitivo (migma) costituito non da un numero finito di elementi (come per Empedocle) ma da un numero infinito di semi originari (spèrmata), i quali esprimono le qualità delle cose. In questo stadio primordiale, illimitato per grandezza e del tutto immobile, si trovano, mescolati a tutti gli altri, i semi di tutte le cose come per esempio dell’oro, del grano, della pelle e così via; attraverso la separazione dalla massa primordiale e l’aggregazione dei semi della stessa specie si sono originate le cose, così come noi le conosciamo, che Aristotele definì omeomerie (particelle similari). Insomma, il divenire delle cose, il loro mutamento è dunque aggregazione e separazione dei semi. Isemi non nascono, non periscono, né divengono: sono eterni e immutabili, infatti essi sono identici, per qualità e quantità, ora come all’inizio della storia del mondo. Essisono particelle della materia divisibili all’infinito, cioè non giungono mai a un minimo, in quanto ci sarà sempre una parte più piccola (per questo Anassagora è ritenuto uno dei sostenitori del calcolo infinitesimale). In questa scomposizione all’infinito, i semi non perdono le proprietà qualitative distintive, che sono all’origine della diversità, della varietà delle cose esistenti in natura. I semi sono quindi invisibili o, più precisamente, non possono essere colti con i sensi ma dal pensiero: ciò che i sensi percepiscono non sono i singoli semi, bensì la loro combinazione. Tuttavia, spiega Anassagora, le cose di cui il mondo è fatto non sono mai purissime poiché non sono costituite solo dai semi che le caratterizzano. Per esempio, in un pezzo di carne ci saranno in prevalenza semi di carne, ma non solo: in verità vi si trovano i semi di tutte le cose anche se a prevalere sono naturalmente quelli di carne. Così è per qualsiasi altra cosa. Praticamente, tutto è in tutto: non esistono semi puri perché, al di là delle differenziazioni e specializzazioni avvenute dopo la separazione del migma, in tutte le cose permane una base comune e unitaria. In altre parole non esistono semi allo stato puro, ma in questo mondo ogni cosa è mescolanza di tutti i semi. Tuttavia, la prevalenza di un tipo di seme (aspetto quantitativo) determina la nascita di un corpo piuttosto che un altro (aspetto qualitativo).In questo modo Anassagora ritiene di essere in grado di spiegare alcuni fenomeni apparentemente paradossali, come, per esempio, il fatto che il pane, una volta ingerito, si trasformi in ossa, sangue e così via. Come è possibile che una cosa si trasformi in un’altra qualitativamente così diversa? La risposta di Anassagora è semplice e ingegnosa: nel pezzo di pane che mangiamo sono contenuti, in quantità minima, anche semi di tutte le altre cose. In questo modo si spiega il fatto che ingerendo un certo alimento esso si trasformi, andando ad accrescere le parti del nostro corpo: in quell’alimento sono semplicemente contenuti i semi delle parti del corpo. È questo il motivo per cui dopo la morte un corpo si trasforma in altro.

Il nous

Per Anassagora, tuttavia, l’ipotesi dei semi non è ancora sufficiente per chiarire come i corpi si siano formati. Essa è sufficiente a giustificare la varietà delle cose (perché la varietà è già data nello stadio primordiale) e il fatto che una possa trasformarsi in un’altra (perché in ogni composto sono presenti i semi di tutte quante le cose); sul piano cosmico, tuttavia, occorre postulare la presenza di una sorta di motore, un principio attivo che interviene sul magma originario dando così avvio al processo di separazione dei semi e all’aggregazione di quelli simili in modo da formare le cose così come noi le vediamo. Questo motore, o principio, è l’intelletto, che Anassagora chiama Intelletto (nous) ordinatore. Il nous è un principio operante con cognizione di causa, esterno e non mescolato ai semi. Il nous non genera il mondo, ma lo organizza secondo una legge che esso stesso impone. È il nous che presiede la composizione e la scomposizione delleomeomerie e che ha fatto staccare dalla terra masse che si sono infiammate e che hanno formato gli astri. Il nous non è né Dio né spirito, né ha un carattere provvidenziale e finalistico, anzi è un principio materiale, sebbene sia la “più sottile e rarefatta” di tutte le sostanze e, al contrario di ogni altra cosa, sia puro e non commisto con la molteplicità dei semi della natura. In altre parole, anch’esso è composto di semi, che non sono tuttavia mescolati tra loro, bensì puri, nel senso che è formato dai soli semi d’intelletto non mischiati a quelli delle altre cose. Afferma perentoriamente Anassagora a proposito di questo Intelletto: «Tutte le altre cose hanno parte a tutto, mentre l’Intelletto è qualcosa di illimitato e di separato e a nessuna cosa è mischiato [ … ]». Il nous è una mente divina eterna, un’intelligenza che conosce tutti i semi e che ha formato il cosmo dal caos iniziale, imprimendo alla materia un movimento rotatorio. Dato l’infinito numero dei semi, Anassagora ritiene che altri mondi, altri sistemi solari, altri uomini, altre civiltà fossero possibili in tempi e spazi diversi.

Per Platone e Aristotele, l’affermazione di un principio intelligente come causa dell’ordine del mondo fu una grande conquista però essi rimproverano ad Anassagora di ricorrere ad esso solo quando egli non riesce a dare ai fenomeni una spiegazione naturalistica. In realtà, Platone e Aristotele tradussero nous con “intelletto”, ma il greco di Anassagora è diverso dal loro: per il nostro nous è “anima”, “vita” e non “intelligenza divina”.

Tra Empedocle e Anassagora esiste un’altra sensibile differenza. Se per Empedocle il mondo, e le cose che vi si trovano al suo interno, nascono quando gli elementi si mescolano, per Anassagora il mondo e le cose si formano quando i semi si separano dal magma originario, per poi unirsi (in base al principio della somiglianza) grazie all’intervento dell’Intelletto ordinatore. Un punto però rimane fermo: anche per Anassagora, esattamente come per Empedocle, non esiste veramente generazione e corruzione delle cose, ma solo trasformazione, dal momento che ciò che realmente esiste, ossia i semi, non nascono né periscono, essendo eterni e immortali.

La teoria della conoscenza

Stando alle testimonianze, Anassagora condivideva la teoria degli effluvi di Empedocle, ma spiegava in maniera opposta il processo della conoscenza sensibile: la conoscenza sensibile interviene nell’incontro tra qualità contrarie. Nessuna qualità infatti può essere percepita di per se stessa, se non attraverso il suo contrario: percepiamo così, ad esempio, il freddo col caldo, con il dolce l’amaro. Ogni sensazione, come ogni dissidio, comporta un dolore. La sensazione è dunque la percezione di un’alterazione nella composizione dei semi degli organi di senso, che entrano in contatto coi semi staccatisi dai corpi esterni. La sede terminale verso cui tutte le sensazioni convergerebbero sarebbe il cervello. L’intelletto umano è capace di conoscere tutto, perché è dissimile alle cose che lo circondano e non ha alcuna mescolanza con il corpo.

La conoscenza posseduta dall’uomo, che sembra superare quella di tutti gli altri esseri viventi, deriva tuttavia da una collaborazione tra intelletto e sensibilità, pensiero e manualità, teoria e pratica. La conoscenza, in generale, è continua ricerca ed ha un carattere graduale: essa è fondata sull’esperienza, la memoria e la tecnica. L’esperienza sensibile ripetuta viene conservata, infatti, nella memoria. Solo con la memoria è possibile costruire il sapere perché rende stabili le nostre sensazioni che vengono interpretate per formulare ipotesi. Queste conoscenze daranno luogo ad un sistema di pensiero stabile detto “scienza” o “episteme”. Il sapere deve poi rifluire nella pratica attraverso la techne, che manipola e trasforma le cose grazie all’uso di protesi che sono gli utensili. Ciò che contraddistingue l’uomo dagli animali è infatti il fare che è possibile grazie al possesso delle mani; l’uso delle mani non solo dà la possibilità di intervenire sulla natura, di plasmarla, ma consente anche di aguzzare le capacità mentali. Questa immagine della scienza sarà all’origine della tradizione scientifica occidentale.

Pluralisti a confronto: Empedocle ed Anassagora
Il numero degli elementi è finito (quattro) Il numero degli elementi è infinito
Ci sono due principi aggreganti e disgreganti C’è un solo principio aggregante e disgregante
La storia ha un carattere ciclico La storia ha un carattere unidirezionale: non si ritorna alla situazione iniziale del migma

Empedocle ed Anassagora

Hegel: i capisaldi del sistema hegeliano

I CAPISALDI DEL SISTEMA HEGELIANO

Per poter comprendere il pensiero di Hegel risulta indispensabile aver chiare, sin dall’inizio, le tesi di fondo del suo idealismo:

a) la risoluzione del finito nell’infinito;

b) l’identità fra ragione e realtà;

c) la funzione giustificatrice della filosofia.

a) Finito e infinito

Con questa espressione, Hegel intende dire che la realtà non è un insieme di sostanze autonome, ma un organismo unitario, detto Assoluto, di cui tutto ciò che esiste è parte o manifestazione. Tale organismo, non avendo nulla al di fuori di sé e rappresentando la ragion d’essere di ogni realtà, coincide con l’Infinito. Lungi dall’essere una totalità armoniosa, l’Assoluto hegeliano si presenta come una totalità articolata che unisce parti, i vari enti del mondo, detti finiti, che sono diverse e anche opposte tra loro, senza annullarne le differenze. L’Assoluto risulta essere quindi l’UNIONE DELL’UNIONE E DELLA NON UNIONE, “sintesi di identità e differenza“. Nell’Assoluto, la conflittualità non lacera l’unità ma la rende più ricca, divenendo la condizione che ne favorisce la realizzazione. I finiti, essendo manifestazioni di esso, coincidono con l’infinito. Pertanto, il finito, come tale, non esiste: ciò che noi chiamiamo “finito” è nient’altro che un’espressione parziale dell’Infinito. Infatti, come la parte non può esistere se non in connessione con il Tutto, in rapporto al quale soltanto ha vita e senso, così il finito esiste unicamente nell’infinito e in virtù dell’infinito. Detto altrimenti: il finito, in quanto è reale, non è tale, ma è lo stesso infinito.

Se la concezione cristiana si basa sulla fede in un Dio creatore trascendente e ontologicamente distinto dal creato, l’hegelismo si configura come una forma di monismo panteistico: esiste un’unica realtà divina (monismo) di cui il mondo visibile costituisce la realizzazione o la manifestazione.  Tuttavia il panteismo di Hegel si differenzia da quello moderno di Giordano Bruno e di Spinoza: per entrambi  l’Assoluto è una Sostanza statica che coincide con la Natura ma incapace di spiegare cosa la spinga a differenziarsi in molti concetti e a presentarsi in infinite forme particolari; per Hegel invece l’Assoluto si identifica con un Soggetto spirituale in divenire, come una realtà spirituale che ha il carattere della trasformazione, del continuo “farsi altro”, di cui tutto ciò che esiste è un “momento” o una “tappa” di realizzazione. La totalità è movimento, processo, divenire, trasformazione: è – dice Hegel – vita. Le differenze e le opposizioni, come già detto, non si annullano, bensì interagiscono in un processo continuo, in un farsi infinito. Infatti, dire che la realtà non è “Sostanza”, ma “Soggetto”, significa dire, secondo Hegel, che essa non è qualcosa di immutabile e di già dato, ma un processo di auto‑produzione che soltanto alla fine, cioè con l’uomo (= lo Spirito, che è piena “consapevolezza della totalità”), giunge a rivelarsi per quello che è veramente: “Il vero ‑ scrive Hegel nella Prefazione alla Fenomenologia dello Spirito è l’intero. Ma l’intero è soltanto l’essenza che si completa mediante il suo sviluppo. Dell’Assoluto devesi dire che esso è essenzialmente Risultato, che solo alla fine è ciò che è in verità…”. In altre parole, poiché la totalità è processo, la verità è il culmine del processo. Il divenire dello Spirito comprende inevitabilmente momenti drammatici di conflitto, di lacerazione, di sconfitta, in altre parole, di negazioni e differenze, ricondotte ad un’unità superiore, come vedremo, dalla ragione. La filosofia, scrive Hegel, deve attraversare il suo “venerdì santo speculativo” prima di arrivare alla domenica di Pasqua. Ma proprio qui sta la novità di Hegel: il negativo non è l’ultima parola. Il negativo è un momento essenziale del positivo e dell’Assoluto concreto verso cui si tende. Il movimento stesso è reso possibile dalle differenze, o “opposizioni”, e dal superamento in un’unità superiore, che genera altre opposizioni e altre unificazioni, e così via. Il pensiero, dunque, è un processo in cui i concetti trapassano l’uno nell’altro, attraverso opposizioni e sintesi continue.

b) Ragione e realtà

Il Soggetto spirituale infinito che sta alla base della realtà viene denominato da Hegel con il termine di Idea o di Ragione. E’ proprio l’idea, cioè il pensiero, a permetterci di scoprire nei fenomeni che ci circondano costanti, regolarità, leggi. Tali leggi non esistono soltanto nella nostra mente ma anche nella realtà. Hegel riabilita l’idea greca del logos: il logos è sia l’ordine razionale della realtà, sia il ragionamento, sia il discorso umano sulla realtà.  In questo modo Hegel sostiene l’identità di pensiero ed essere, o meglio, di ragione e realtà, vale a dire dell’unità originaria. Per Hegel è quindi inammissibile il dualismo di pensiero e realtà come sostanze separate ed eterogenee. Il pensiero è realtà e la realtà è pensiero, spirito. Ciò implica anche che tra logica ed ontologia (o metafisica) non sussiste alcuna differenza. Da ciò il noto aforisma, contenuto nella Prefazione ai Lineamenti di filosofia del diritto, che è stato oggetto delle più svariate interpretazioni, in cui si riassume il senso stesso dell’hegelismo: Ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale.

Con la prima parte della formula, Hegel intende dire che la razionalità non è pura idealità, costruzione astratta, schema, dover‑essere, ma la forma stessa di ciò che esiste, poiché la ragione “governa” il mondo e lo costituisce. In altre parole, se l’Assoluto non si incarna nel mondo è vuoto, astratto, formale.

Con la seconda parte della formula, Hegel intende affermare che la realtà è una connessione unitaria che ha i caratteri della necessità, cioè non è un confuso insieme di avvenimenti casuali, non è una materia caotica, ma il dispie­garsi di una struttura razionale (l’Idea o la Ragione) che si manifesta in modo inconsapevole nella natura e in modo consapevole nell’uomo: se il reale non si riconosce nel razionale è privo di significato, è senza senso. Per cui, con il suo aforisma, Hegel non esprime la semplice possibilità che la realtà sia penetrata o intesa dalla ragione, ma la necessaria, totale e sostanziale identità di realtà e ragione. Tuttavia tale identità non va intesa semplicemente e staticamente: essa implica anche l’identità fra essere e dover‑essere, in quanto ciò che è risulta anche ciò che razionalmente deve essere. Tant’è vero che le opere di Hegel sono costellate di osservazioni piene di ironia e di scherno a proposito dell’“astratto” e moralistico dover essere che non è, dell’ideale che non è reale. Il mondo, in quanto è e così com’è, è razionalità dispiegata, ovvero ragione reale e realtà razionale che si manifesta attraverso una serie di momenti necessari che non possono essere diversi da come sono. Infatti, da qualsiasi punto di vista guardiamo il mondo, troviamo ovunque, secondo Hegel, una rete di connessioni necessarie e di “passaggi obbligati” che costi­tuiscono l’articolazione vivente dell’unica Idea o Ragione. In altri termini, Hegel, secondo uno schema tipico della filosofia romantica, ritiene che la realtà costituisca una totalità processuale necessaria, formata da una serie ascendente di “gradi” o “momenti”, che rappresentano, ognuno, il risultato di quelli precedenti ed il presupposto di quelli seguenti.

c) La funzione giustificatrice della filosofia

Coerentemente con il taleorizzonte teorico, fondato sulle categorie di totalità e di necessità, Hegel ritiene che il compito della filosofia consista nel prendere atto della realtà e nel comprendere le strutture razionali che la costituiscono: “Comprendere ciò che è è il compito della filosofia, poiché ciò che è è la ragione”. Compito della filosofia non è quella di dare delle lezioni di razionalità al reale perché il reale è già razionale: a dire come dev’essere il mondo, la filosofia arriva sempre troppo tardi giacché sopraggiunge quando la realtà ha compiuto il suo processo di formazione. Essa, afferma Hegel con un paragone famoso, è come la nottola di Minerva, la civetta che accompagna la dea della sapienza, che inizia il suo volo sul far del cre­puscolo, cioè quando la realtà è già bell’e fatta. La civetta, infatti, ha grandi occhi ed è capace di vedere nella notte. Così la filosofia, in una buia epoca di crisi e di passaggio tra il vecchio e il nuovo, ha la capacità di vedere i fenomeni. La filosofia deve dunque “mantener­si in pace con la realtà” e rinunciare alla pretesa assurda di determinarla e guidarla. Deve soltanto portare nella forma del pensiero, cioè elaborare in concetti, il conte­nuto reale che l’esperienza le offre, dimostrandone, con la riflessione, l’intrinseca razionalità e necessità. Si è sempre visto in essa il simbolo stesso della vocazione contemplativa e della rinuncia alla trasformazione del mondo da parte di Hegel: sembra, infatti, che egli affidi al pensiero il compito di registrare passivamente una situazione storica già svoltasi e di rifugiarsi nella notte della propria interiorità. La filosofia, infatti, non può fornire programmi d’azione politica perchè esprimono consapevolezze che possono maturare solo dopo che un’epoca si è conclusa.
In Hegel troviamo un altro animale simbolo in contrappeso alla civetta: la talpa. La talpa, presente nelle berlinesi Lezioni sulla filosofia della storia, costruisce percorsi complessi e ordinati attraverso un lavora sottoterra, uno scavo incessante nel buio più totale, guidata soltanto dall’istinto di un senso dello spazio particolarmente sviluppato. In Hegel, simbolizza il cammino della storia come un progressivo affermarsi della razionalità inconscia contenuta implicitamente nell’attività degli uomini, nella costruzione di un mondo storico. Al contrario, la civetta è capace di vedere nel buio ma non di agire. Il contributo della filosofia consiste (al pari dell’intervento dello Stato nella sfera economica della società civile) nel chiarire e mitigare i conflitti. È un’immagine che proviene dall’Amleto di Shakespeare, un autore che ha avuto un peso enorme in Hegel, molto più di tanti filosofi, grazie alla sua visione tragica, e anche “dialettica”, della storia. Quindi mentre la filosofia contempla, la storia lavora. In Hegel queste due immagini hanno un equivalente nei popoli: i tedeschi sono la civetta, sono un popolo contemplativo; i francesi, per converso, agiscono molto, ma magari pensano poco. Per cui Hegel, come il giovane Marx, che fonderà una rivista chiamata Annali franco-tedeschi, è in favore di questa unione virtuosa tra l’intellighenzia tedesca e la capacità politica e trasformatrice dei francesi. In realtà, Hegel esalta il campo d’azione della filosofia, come si legge in una lettere del 1808: “Il lavoro teoretico, me ne vado convincendo ogni giorno di più, produce nel mondo più che non il pratico; una volta rivoluzionato il regno della rappresentazione, la realtà effettuale non tiene più“. Questi chiarimenti delineano il tratto essenziale della filosofia e della personalità di Hegel. L’autentico compito che Hegel ha inteso attribuire alla filosofia (e ha cercato di realizzare con la sua filosofia) è la giustificazione razionale della realtà, della presenzialità, del fatto.

Hegel in un passo dell’Enciclopedia ha precisato che la sua filosofia non può essere scambiata per una banale accettazione della realtà in tutti i suoi aspetti, perché non vanno inclusi nel concetto di “realtà” gli aspetti superficiali e accidentali dell’esistenza. Per Hegel è “razionale” e dunque “reale” ciò che nella storia avanza, producendo effetti, non ciò che nella storia viene colto istantaneamente. Tuttava come possa esistere l’accidentale in una realtà razionale e necessaria resta oscuro. Gli “accidenti” rappresentano ciò che non si lascia ridurre alla ragione, cioè alla sua filosofia.

Nella vita ordinaria si chiama a casaccio realtà ogni capriccio, l’errore, il male e ciò che è su questa linea, come pure ogni qualsiasi difettiva e passeggera esistenza. Ma già anche per l’ordinario modo di pensare un’esistenza accidentale non meriterà l’enfatico nome di reale: l’accidentale è un’esistenza che non ha altro maggior valore di un possibile, che può non essere allo stesso modo che é. Ma, quando io ho parlato di realtà, si sarebbe pur dovuto pensare al senso nel quale adopero quest’espressione, giacché in una mia estesa Logica ho trattato anche della realtà, e l’ho accuratamente distinta non solo dall’accidentale, che pure ha esistenza, ma altresì dall’essere determinato, dall’esistenza e da altri concetti [1].

Questo compito egli l’ha affrontato con maggiore energia proprio là dove esso sembra più rischioso: cioè nei confronti della realtà politica, dello Stato: infatti può sembrare ovvio che il mondo naturale sia razionale, in quanto regolato da leggi necessarie, mentre è più difficile riconoscere che qualsiasi costruzione storica dell’uomo sia l’espressione di una necessità razionale, e che quindi debba essere accettata così com’è.

A partire da questa precisazione taluni critici hanno negato il carattere giustificazionista della filosofia hegeliana: un filone interpretativo che va da Engels a Marcuse (pensatori della “sinistra rivoluzionaria”), pur ammettendo gli aspetti conservatori del pensiero hegeliano, ha tuttavia cercato di mostrare come esso possa venir letto in modo dinamico e rivoluzionario. Infatti, secondo tali autori l’aforisma di Hegel significherebbe in sostanza che il reale è destinato a coincidere con il razionale, mentre l’irrazionale è destinato a perire. In altre parole, non tutto ciò che è semplicemente esistente è reale, ma ciò che ha la potenzialità di trasformarsi. Ora, questa lettura di Hegel rappresenta, più che un’interpretazione, una correzione di Hegel alla luce degli ideali rivoluzionari dei suoi autori. In conclusione ci sembra che i testi di Hegel documentino in modo chiaro e inequivocabile il suo atteggiamento fondamentalmente giustificazionista nei confronti della realtà.

 

[1] G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Laterza, Bari, 1975, pagg. 9-11, 14, 22-23, 26-27.

Hegel: idea, natura e spirito. La partizione della filosofia. La dialettica.

Idea, Natura e Spirito. La partizione della filosofia.

Il disegno complessivo dell’Enciclopedia hegeliana è quello di una grande triade dialettica in cui l’Assoluto, cioè la ragione, nella sua verità, deve giungere a riconoscersi come reale e ciò compare solo alla fine del processo, quale risultato conclusivo. Ciò non significa che l’Assoluto non sia compiuto già all’inizio, ma la verità è tale solo se confermata dalla totalità dello sviluppo. Il reale è già razionale e la ragione è già reale, solo che essa non ne è pienamente consapevole. Per giungere a questa consapevolezza deve percorrere un itinerario, un processo per l’appunto, che è tutt’altro che scevro di difficoltà: per riconoscersi nel reale, la ragione deve scontrarsi innanzi tutto con ciò che non si lascia ridurre ad essa, con qualcosa che la nega. Si tratta della già nota dialettica idealistica, presente anche in Fichte e Schelling, tra limite e superamento di esso da parte dello spirito che riconduce ogni realtà all’identità con sé.

Quindi, anche Hegel ritiene che il farsi dinamico dell’Assoluto passi attraverso tre momenti: l’Idea in sé (tesi), l’Idea fuori di sé (antitesi) e l’Idea in sé e per sé, che ritorna in sé (sintesi). Solo realizzando il ricongiungimento del primo e dell’ultimo momento, l’Assoluto giunge al proprio maturo compimento, mostrandosi come soggetto autoconsapevole delle proprie forme e delle proprie manifestazioni. La verità deve dunque superare la prova del fuoco della realtà. La dialettica è il percorso che l’Assoluto compie per giungere alla sua verità; è il percorso attraverso cui l’Assoluto, inizialmente inconsapevole e puro essere in sé, si appropria delle sue stesse manifestazioni, che prima esperisce come qualcosa di estraneo, come un essere fuori di sé, acquisendo quell’autoconsapevolezza che Hegel esprime attraverso la nozione riflessiva di essere per sé.

Nella fase matura del pensiero hegeliano questo schema dialettico generale articolerà i contenuti di un sistema completo di filosofia, secondo tre momenti principali: logica (tesi), natura (antitesi) e spirito (sintesi). A questi tre momenti strutturali dell’Assoluto Hegel fa corrispondere le tre sezioni in cui si divide il sapere filosofico:

1. dottrina dell’essere
        Logica 2. dottrina dell’essenza
3. dottrina del concetto
1. meccanica
Filosofia della natura 2. fisica
3. organica
a) antropologia
1. soggettivo b) fenomenologia
c) psicologia
a) diritto
Filosofia dello Spirito 2. oggettivo b) moralità
c) eticità
a) arte
3. assoluto b) religione
c) filosofia

1) la logica, che è la scienza dell’Idea in sé, cioè dell’Idea “pura”, considerata in se stessa (= in sé) a prescindere dalla sua concreta realizzazione nella natura. Da questo angolo prospettico, l’Idea, secondo un noto paragone teologico di Hegel, è assimilabile a Dio prima della creazione della natura e di uno spirito finito, ovvero, in termini meno equivocanti (visto che l’Assoluto hegeliano è un infinito immanente, che non crea il mondo, ma è il mondo) è assimilabile al programma, all’impalcatura, all’ossatura logico‑razionale della realtà. L’Idea rappresenta l’insieme organico di tutte le determinazione logiche del reale. Questa idea tutta compiuta e perfetta in sé ha bisogno però di ritrovarsi nella realtà, di vedere cioè fino a che punto essa informa veramente di sé la realtà effettiva, e soprattutto ha bisogno di rispecchiarsi, per giungere alla coscienza di sé. Comincia così il cammino dell’idea allaricerca di se stessa nella realtà, passando per la natura e per lo spirito.

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 2) la filosofia della natura, che è la scienza dell’Idea nel suo alie­narsi da sé, l’Idea fuori di sé o Idea nel suo essere altro: è la Natura, cioè l’estrinsecazione o l’alienazione dell’Idea nelle realtà spazio‑temporali del mondo. Nella natura però essa trova solo una realizzazione parziale, a causa dei limiti propri di quella, e comincia a ritrovarsi, a riflettersi in modo omogeneo e adeguato solo quando incontra la realtà umana. Ma non tutta la realtà umana è adeguata all’idea, giacché l’uomo è anche parte della natura.

3) la filosofia dello spirito, che è la scienza dell’Idea che, dal suo alienamen­to, ritorna in sé. È lo Spirito, cioè l’Idea che dopo essersi fatta natura torna presso di sé nell’uomo. L’idea si riflette dunque solo nell’uomo inteso come spirito e come produttore di cultura, di prodotti cioè spirituali quali il diritto, la storia, l’arte, la religione, la filosofia. Solo in queste realtà spirituali l’idea si troverà realizzata in un modo adeguato alla sua costituzione ideale. Perciò Hegel può dire: «L’assoluto è lo spirito: questa è la più alta definizione dell’assoluto» (Enciclopedia delle scienze filosofiche, tomo II, p. 375).

Ovvia­mente, questa triade non è da intendersi in senso cronologico, come se prima ci fosse l’Idea in sé e per sé, poi la Natura e infine lo Spirito, ma in senso ideale. Infatti, ciò che concretamente esiste nella realtà è lo Spirito (la sintesi), il quale ha come sua coeterna condizione la Natura (l’antitesi) e come suo coeterno presupposto il programma logico rappresentato dall’Idea pura (la tesi).

I due elementi strutturali del procedere del pensiero hegeliano, ma più in generale del processo che l’assoluto deve compiere, sono: la dialettica, cioè confronto e superamento del limite, e la circolarità, cioè identità di inizio e fine.

La Dialettica

Come si è visto, l’Assoluto, per Hegel, è fondamentalmente divenire, cioè il percorso che l’Assoluto in generale, ma in modo più capillare anche ogni sua parziale manifestazione, effettua per giungere alla sua verità. Hegel attribuisce al concetto di dialettica una funzione assai più importante di quella che le era stata assegnata da Aristotele o da Kant: essa infatti non è la tecnica della confutazione ma la legge Senza titoloche regola tale divenire e che rappresenta, al tempo stesso, la legge (ontolo­gica) di sviluppo della realtà e la legge (logica) di comprensione della realtà. Hegel non ha offerto, della dialettica, una teoria sistematica, limitandosi, per lo più, ad utilizzarla nei vari settori della filosofia. Ciò non esclude la possibilità di fissare qualche tratto generale di essa.

Nel par. 79 dell’Enciclopedia Hegel distingue tre momenti o aspetti del pensiero: a) l’astratto o intellettuale; b) il dialettico o negativo‑razionale; c) lo speculativo o positivo­-razionale.

Il momento astratto o intellettuale è quello in cui “l’intelletto determina e tiene ferme le determinazioni”. Esso porta a concepire l’esistente sotto forma di una molteplicità di determinazioni statiche e separate le une dalle altre; la cosa è considerata nelle caratteristiche particolari del suo stato presente che la distinguono dai momenti successivi del processo in cui essa stessa sarà coinvolta (ad esempio, il fiore come diverso dal frutto). Con il termine “astratto” Hegel sottolinea il fatto che i vari momenti sono separati (astratti=tratti fuori) dal processo che li comprende, rappresentano qualcosa di particolare ed unilaterale; “astratto” indica anche il contrario di “concreto”, che è l’esistenza reale, comprendente l’intero sistema. In altri termini, il momento intellettuale (che è il grado più basso della ragione) è quello per cui il pensiero si ferma alle determinazioni rigide della realtà, limitandosi a considerar­le nelle loro differenze reciproche e secondo il principio di identità e di non‑contraddizio­ne (secondo cui ogni cosa è se stessa ed è assolutamente diversa dalle altre). L’intelletto costituisce un importante momento della ricerca scientifica, ma la filosofia non può fermarsi qui e deve aprirsi a nuovi sviluppi: essa esprime, infatti, il bisogno di andare oltre, esprime il bisogno di unificazione, di totalità, di assoluto, tanto più forte quanto più la potenza dell’intelletto divide e analizza, precisa e definisce, circoscrive e classifica. La filosofia deve produrre una nuova unificazione che non lasci fuori di sé quegli elementi di scissione e di lacerazione, ma li comprenda come elementi costitutivi.

Il momento dialettico o negativo‑razionaledissolve in nulla le determinazioni dell’intelletto”; esso consiste nel mostrare come le sopraccitate determina­zioni siano unilaterali ed esigano di essere messe in movimento, ovvero di essere rela­zionate con altre determinazioni. Il pensiero è processo, è movimento continuo e questo movimento è reso possibile dalle differenze, o “opposizione”, e dal loro superamento in un’unità superiore, che genera altre opposizioni e unificazioni, e così via.  Infatti, poiché ogni affermazione sottintende una negazione, in quanto specificando ciò che una cosa è implicitamente si chiarisce ciò che essa non è, risulta indispensabile procedere oltre il principio di identità e mettere in rapporto ogni determinazione chiusa nella propria individualità con le determinazioni opposte (ad es. il concetto di “uno”, non appena venga smosso dalla sua astratta rigidezza, richiama quello di “molti” e manifesta uno stretto legame con esso. E così dicasi di ogni altro concetto: il particolare richiama l’universale, l’uguale il disuguale, il bene il male ecc.).

Il momento speculativo o positivo‑razionale consiste quindi nel cogliere l’unità delle determinazioni opposte, ossia nel rendersi conto che tali determinazio­ni sono aspetti unilaterali di una realtà più alta che li ri‑comprende o sintetizza entram­bi (ad es., esso “genera l’universale e in esso comprende il particolare” così come la realtà vera non è né l’unità in astratto né la molteplicità in astratto, bensì un’unità che vive solo attraverso la molteplicità). Quindi, se l’intelletto fissa i concetti distinguendo rigidamente le cose le une dalle altre, la ragione, che per Hegel è uno strumento superiore di conoscenza, riesce a rendere “fluidi” i concetti, negandoli, rovesciandoli nella loro antitesi, togliendo loro la finitezza, affrancandoli dall’isolamento a cui condannava il primo momento intellettuale. Si noti che, contrariamente all’uso comune, “speculativo” indica per Hegel ciò che è realmente esistente e concreto. La dialettica ha un significato globalmente ottimistico, poiché essa ha il compito di unificare il molteplice, conciliare le opposizioni, pacificare i conflitti, ridurre ogni cosa all’ordine e alla perfezione del Tutto. Molteplicità, opposizione, conflitto sono senza dubbio reali secondo Hegel, ma solo come momenti di passaggio. In altri termini, il negativo, per Hegel, sussiste solo come un momento del farsi del positivo e la tragedia, nella sua filosofia, è solo l’aspetto superficiale e transeunte di una sostanziale comme­dia (nel senso letterale di vicenda avente un epilogo positivo).

Globalmente e sintetica­mente considerata, la dialettica consiste quindi: 1) nell’affermazione o posizione di un concetto “astratto e limitato”, che funge da tesi; 2) nella negazione di questo concetto come alcunché di limitato o di finito e nel passaggio ad un concetto opposto, che funge da antitesi; 3) nella unificazione della precedente affermazione e negazione in una sintesi positiva comprensiva di entrambe. La sintesi si configura come una ri‑affermazione potenziata dell’affermazione iniziale (tesi), ottenuta tramite la negazione della negazione intermedia (antitesi). Riaffermazione che Hegel focalizza con il termine tecnico di Aufhebung il quale esprime, analogamente al tollere latino, l’idea di un superamento che è, al tempo stesso, un togliere (l’opposizione fra tesi ed antitesi) ed un conservare (la verità della tesi, dell’antitesi e della loro lotta). In altri termini, l’Aufhebung descrive il movimento dialettico con cui una figura concettuale, nel suo sorgere, rimuove e supera la precedente lasciandola alle proprie spalle, ma al tempo stesso ne conserva l’esperienza, di modo che la figura rimossa continui a vivere, come figura deposta, nella successiva:

La parola togliere ha nella lingua [tedesca] il doppio senso, per cui val quanto conservare, ritenere, e nello stesso tempo quanto far cessare, metter fine. [...]. Così il tolto è insieme un conservato, il quale ha perduto soltanto la sua immediatezza, ma non perciò è annullato.                                                     G.W.F. Hegel, Scienza della logica, p. 100

La dialettica non fa che illustrare il principio fondamentale della filosofia hege­liana: la risoluzione del finito nell’infinito. Infatti essa ci mostra come ogni finito, cioè ogni spicchio di realtà, non possa esistere in se stesso (poiché in tal caso sarebbe un Assoluto, ovvero un infinito autosufficiente) ma solo in un contesto di rapporti. Infatti, per porre se stesso il finito è obbligato ad opporsi a qualcos’altro, cioè ad entrare in quella trama di relazioniche forma la realtà e che coincide con il tutto infinito di cui esso è parte o manifestazione. E poiché il tutto di cui parla Hegel, ovvero l’Idea, è una entità dinamica, la dialettica esprime appunto il processo mediante cui le varie parti o determinazioni della realtà perdono la loro rigidezza, si fluidificano e diventano “momenti” di un’Idea unica ed infinita. Detto altrimenti, la dialettica rappresenta la crisi del finito e la sua risoluzione necessaria nell’infinito: “ogni finito ha questo di proprio, che sopprime se medesimo. La dialettica forma, dunque, l’anima motrice del progresso scientifico… in essa, soprattutto è la vera, e non estrinseca elevazione sul finito”.

Una filosofia circolare e concentrica

Adesso occorre evidenziare il carattere circolare dell’andamento dialettico del pensiero hegeliano, o meglio, del procedere dell’Assoluto, visto che la filosofia non fa altro che rintracciarne la presenza, senza aggiungere nulla di personale: Hegel, sin dall’inizio, precisa che ciò che egli espone non è la propria filosofia, ma la filosofia dell’Assoluto che egli s’incarica solo di ricostruire ed esporre.

Pensare dialetticamente significa pensare la realtà come una totalità processuale che procede secondo lo schema triadico di tesi, antitesi e sintesi. Si tratta di un andamento circolare in quanto si parte dall’idea per giungere ad essa in una forma potenziata (concreta) come spirito; il punto di partenza e il punto d’arrivo coincidono in quanto in entrambi i casi si ribadisce l’identità di pensiero e realtà, di ideale e reale: identità che nel caso dell’idea è ancora astratta, virtuale; nel caso dello spirito effettiva, concreta, realizzata. Questa circolarità ha carattere graduale e ascendente, costituendo nell’insieme un organismo di cerchi concentrici di sempre maggiore ampiezza. Concentrici in quanto la circolarità e la dialetticità (la successione e reciproca implicazione di tesi-antitesi-sintes) non riguardano solo i tre momenti principali del sistema (idea-natura-spirito), ma anche i singoli e parziali momenti al di sotto, o meglio, all’interno di queste tre circolarità principali.

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Ogni momento si articola così, a sua volta, in momenti triadici, entro i quali la sintesi costituisce anche il momento per una nuova tesi, una relativa antitesi e una successiva sintesi, fino al momento principale e di lì progressivamente con andamento sempre dialettico all’Assoluto.

Il sistema hegeliano è perciò un sistema che cresce su di sé in modo circolarmente concentrico, assimilando in sé via via tutto il reale, allo scopo di ricondurlo all’Assoluto, di conquistare tutte le regioni del reale sotto il suo dominio, ovvero di far sì che esso si riconosca in tutta la realtà che gradualmente fagocita, dimostrando come non ci sia porzione di realtà che non sia spirituale, identica ad esso ma in un modo diversamente proporzionale: per cui vi saranno realtà che lo rispecchiano maggiormente (le realtà spirituali appunto) e altre meno (quelle naturali). Le realtà spirituali saranno dunque le più concrete non solo in quanto le più adeguate ad accogliere e a riflettere l’assoluto spirituale, ma anche in quanto rappresentano l’ultima e massima dilatazione circolare del sistema, comprendendo cioè al proprio interno tutte le precedenti realtà attraversate e assimilate dallo spirito.

L’andamento dialettico e circolare della vita dell’Assoluto procede dunque in modo graduale. Se il vero è l’intero edificio o organismo, allora ciò che è parziale o iniziale non è la verità. La verità non è immediata, non si dà tutta subito, d’un colpo, ma mediatamente, gradualmente. L’immediato non è vero, essendo il grado iniziale è il più povero di determinazioni, di caratteristiche: esso non è la verità in quanto nulla esiste o è vero nel suo isolamento, ma solo in quanto si confronta con il suo opposto che non lo nega assolutamente, non lo assoggetta, ma lo aiuta a determinarsi (omnis determinatio est negatio: ogni determinazione è una negazione), cioè a precisarsi nella sua verità: che viene riconfermata a un grado di verità superiore, a un circolo più ampio.

Si ha in questo modo anche una revisione del principio di non contraddizione della logica classica, perché secondo Hegel da due opposti non scaturisce una contraddizione che si autovanifica, ma sorge la verità. Il principio d’identità (A=A) non riesce a spiegare la differenza. Si deve dunque usare un’altra formula, che contenga nello stesso tempo l’identità e la differenza: A=B. in questa il soggetto e l’oggetto, a partire dalla loro differenza, vengono espressi nel loro convergere (rappresentato dal segno dell’uguaglianza). L’identità, così, non esclude la molteplicità: si ha una sintesi di identità e differenza. Ogni individualità, ogni essere A, porta già dentro di sé la sua ombra, la sua negazione, il fatto che non è altro; così, la determinazione dell’altro, di B, trova in A la sua contraddizione. Ciò che esiste non può quindi essere pensato con il vecchio principio di contraddizione. In altre parole, una cosa non è mai semplicemente quello che è, ma è anche, insieme, quello che non è. Ciò significa che quello che “non è” non è solo un fattore esterno, ma è una dimensione interna. È come se fosse una ferita nel tessuto connettivo dell’essere: ogni cosa che esiste è segnata, è ferita dalla negatività. In un punto estremamente difficile ma nel contempo bello della Fenomenologia dello spirito, Hegel scrive che la realtà deve mirare a “comprendersi come inquietudine”. Quando dunque Hegel dice che «il vero è il tutto» intende proprio questo, e cioè che la verità non è propria di una realtà nel suo isolamento, nella sua astratta parzialità, ma in quanto è connessa organicamente con tutto il resto, con tutti i gradi precedenti e con tutti quelli successivi che innalzano alla verità in tutta la sua interezza, cioè sotto tutti gli aspetti, anche quelli che la determinano solo implicitamente. Per esempio, la bontà in sé (tesi), isolata da ciò che potrebbe negarla, non è vera. Il vero uomo buono è colui che almeno una volta è stato tentato o si è imbattuto nella cattiveria (antitesi), e però l’ha sconfitta, le ha resistito. Il vero buono dunque è quello che contempla in sé la possibilità della cattiveria, per negarla, è cioè colui che nega la negazione della bontà (sintesi).

Provando ancora a esemplificare, un cittadino onesto era già tale nel primo momento (idea), prima che si affacciasse la possibilità o la tentazione di rubare, ed è onesto anche dopo che ha superato la tentazione (spirito): ma che differenza tra i due momenti! Una cosa è infatti dire a priori (prima di gestire del denaro altrui), in astratto e dunque in modo poco convinto o fermo: “io non rubo”; un altro valore, più solido e concreto, ha la medesima affermazione “io non rubo” detta da uno che avrebbe la possibilità di rubare,ma si astiene.

Allo stesso modo, l’identificazione di reale e razionale nell’idea (tesi) ha valore solo astratto e formale; un valore più concreto ed effettivo ha tale identificazione nello spirito (sintesi), in cui la negazione, rappresentata dalla natura (antitesi), ha confermato e non negato tale identificazione iniziale solo astratta. Solo nello spirito (assoluto) il razionale (idea) è reale (realtà naturale e spirituale) e viceversa, perché lo spirito è l’idea che non è stata negata dalla natura o dalla realtà storico-mondana, ma che le ha attraversate vittoriosamente, e perciò solo ora si può dire sensatamente tutto è spirito, tutto è razionale, e non prima di superare la prova del confronto con tali realtà che avrebbero potuto smentire tale dichiarazione.

Ma dire che solo il risultato sia “il vero” significa anche che tutto è vero: Hegel non butta via niente, tutto è giustificato, tutto è razionale; ciò che non è razionale, semplicemente non è. Tutto è vero, anche se occorre precisare, in proporzioni diverse, concentricamente ampliantisi, per cui i momenti iniziali del sistema avranno un grado di verità inferiore rispetto a quelli finali, in quanto avranno inglobato in sé meno realtà dei successivi, avranno ricondotto alla razionalità porzioni meno estese di reale.

La negazione è dunque mediazione, che significa da un lato confronto e dall’altro passaggio graduale:

  • confronto con ciò che (in quanto antitesi) potrebbe negare (la tesi), ma che in realtà viene negato (sintesi come negazione della negazione) rafforzando così il punto di partenza ancora astratto;
  • passaggio graduale da una circolarità (composta dialetticamente dai tre momenti di tesi, antitesi e sintesi) più povera (di essere), inferiore, meno spirituale, a una più ricca, superiore, più spirituale: in questo caso mediazione è gradualità, e gradualità è concatenazione.

La sintesi come momento culminante e più ricco di una circolarità precedente (ricordiamo, circolarità in quanto la sintesi ritorna alla tesi, ma è una tesi rafforzata) si pone poi come tesi, come punto di partenza e più povero di una circolarità successiva. Ad esempio: l’uomo è il punto culminante e più ricco dello sviluppo dialettico della natura, in quanto cerchio che racchiude concentricamente in sé le precedenti e inferiori circolarità della natura; ma l’uomo inteso ancora solo come natura (come quella specie animale in cui culmina l’evoluzione della natura) è il punto di partenza più povero per il processo dialettico dello spirito, le cui categorie iniziali, meno determinate, coincidono con l’emergere dell’attività spirituale all’interno di un individuo considerato ancora come prevalentemente naturale.

Ci si può chiedere se la dialettica hegeliana sia a sintesi aperta o a sintesi chiusa. Infatti, poiché ogni sintesi rappresenta a sua volta la tesi di un’altra antitesi, cui succede un’ulteriore sintesi e così via, sembrerebbe, a prima vista, che la dialettica esprima un processo costitutivamente aperto. In verità, Hegel pensa che in tal caso si avrebbe il trionfo della “cattiva infinità” ossia un processo che, spostando indefinitamente la me­ta da raggiungere, toglierebbe allo spirito il pieno possesso di se medesimo. Di conse­guenza, egli opta per una dialettica a sintesi finale chiusa, cioè per una dialettica che ha un ben preciso punto di arrivo: il circolo si chiude, esiste cioè un circolo di tutti i circoli che tutti li ricomprende entro di sé e che rappresenta il punto in cui lo spirito si riflette completamente nella realtà, e quindi è il punto di chiusura ovvero di ricongiungimento con l’inizio dell’idea.

La crescita concentrica ha termine quando la realtà è stata tutta riassorbita nello spirito o, inversamente, quando essa si è dimostrata, in verità, spirituale: in questo punto si registra anche il momento massimo di autocoscienza che l’assoluto ha di sé, in quanto sa di essere tutta la realtà e che nulla sfugge ad esso o gli si oppone. Massima identità autocosciente che, idealisticamente, coincide con la libertà assoluta, in quanto lo spirito nulla trova più di fronte a sé a limitarlo. La storia della filosofia si conclude con la filosofia hegeliana, la storia politica si conclude con la monarchia costituzionale prussiana. Questa concezione sarà criticata già a partire dalla Sinistra hegeliana e da tutti quei filosofi che si sono rifatti in qualche modo all’hegelismo (da Engels a Croce e ai neomarxisti) che vedranno in essa la sacralizzazione dell’esistente, l’idea di uno “stagnante epilogo” della storia del mondo, recuperando invece l’idea di un processo che risulta costitutivamente aperto.

Mentre nei gradi intermedi della dialettica prevale la rappresentazione della spirale, nella visione complessiva e finale del sistema prevale la rappresentazione del circolo chiuso, che soffoca la vita dello spirito, dando al suo progresso un termine, al di là del quale ogni attività creatrice si annulla, perché, avendo lo spirito realizzato pienamente se stesso, non gli resta che ripercorrere il cammino già fatto… L’impetuosa corrente sfocia in uno stagnante mare, e nell’immobile specchio trema la vena delle acque che vi affluiscono … ”(Guido De Ruggiero).

Pertanto, più che sul momento della “conciliazione” o “sintesi”, tali filosofi hanno insistito sul momento dell’“opposizione” e della “contraddizione ”, ossia su ciò che Hegel, nella Fenomenologia, chiama “il travaglio del negativo”. Ma la concezione di un punto di arrivo definitivo della storia è in contrasto con la concezione stessa di “dialettica” e, più banalmente, è contraddetta dagli sviluppi successivi della storia stessa.

La critica alle filosofie precedenti

Dopo aver definito in positivo i capisaldi dell’hegelismo, è venuto il momento di illu­strarli in negativo, ossia di vedere a quali filosofie esso storicamente si contrapponga.

a) Hegel e gli illuministi

La filosofia di Hegel implica un oggettivo rifiuto della maniera illuministica di rapportarsi al mondo. Infatti gli illuministi ritengono che il reale non è razionale, dimenticando così che la vera ragione (= lo Spirito) prende corpo nella storia ed abita in tutti i momenti di essa. Quindi, la ragione degli illuministi è puramente soggettiva: esprime solo le esigenze e le aspira­zioni degli individui; è una ragione esterna al reale, finita, parziale e dunque astratta. Per Hegel questa ragione si dovrebbe chiamare “intelletto”, intendendo con questo termine una ragione che pretende di dare lezione alla realtà e alla storia, stabilendo come dovrebbe essere e non è. Per Hegel la realtà è sempre necessariamente ciò che deve essere: il reale è già razionale e non necessita di alcuna correzione da parte dell’intelletto.

b) Hegel e Kant

Kant aveva voluto costruire una filosofia del finito, e l’antitesi fra il fenomeno e il noumeno, fra il dover essere e l’essere, tra la ragione e la realtà, fa parte integrante di una tale filosofia. La distinzione tra fenomeno (la realtà per noi in sede teoretica) e noumeno, o tra essere e dover essere (in sede pratica), dimostra proprio il mancato riconoscimento per cui l’essere, cioè la realtà, è già attualmente tutto ciò che deve essere, in quanto già identica con la ragione che quindi non le si impone normativamente dall’esterno come ideale a cui ci si può sempre avvicinare, ma mai avvicinare. Ad esempio, le idee della ragione per Kant sono soltanto ideali regolativi, che spingono la ricerca scientifica all’infinito, verso una compiutezza che essa non può raggiungere mai; così come in campo morale, la santità, cioè la perfetta conformità della volontà alla legge della ragione, è il termine di un progresso all’infinito. In una parola, l’essere non si adegua mai al dover essere, la realtà alla razionalità. A Kant Hegel rimprovera anche la pretesa di voler indagare la facoltà di conoscere prima di procedere a conoscere: pretesa che egli assimila all’assurdo proposito “di imparare a nuotare prima di entrare nell’acqua”.

c)Hegel e i romantici

Il dissenso di Hegel nei confronti dei romantici verte essenzialmente su due punti.

In primo luogo Hegel contesta il primato del sentimento, dell’arte o della fede, sostenendo che la filosofia, in quanto scienza dell’Assoluto, non può che essere una forma di sapere mediato e razionale. L’Assoluto non si attinge immediatamente, come con un “colpo di pistola”, ma gradualmente, attraverso catene di mediazioni progressive. Da escludere quindi è l’accesso intuitivo all’Assoluto in tutte le sue modalità: modalità che vengono invece celebrate e rinvenute dai romantici nella via sentimentale, nell’intuizione artistica o nella religione.

In secondo luogo, Hegel contesta gli atteggiamenti individualistici dei romantici (o, per meglio dire, di una parte dei romantici), affermando che l’intellettuale non deve narcisisticamente ripiegarsi sul proprio io, ma tener d’occhio soprattutto l’oggettivo “corso del mondo”, cercando d’integrarsi nelle istituzioni socio-politiche del proprio tempo.

In realtà Hegel, pur non rientrando nella “scuola romantica” in senso stretto, risulta profondamente partecipe del clima culturale romantico, del quale oltre a numerosi motivi particolari (il concetto della creatività dello Spirito, dello sviluppo provvidenziale della storia, della spiritualità incosciente della natura ecc.) condivide soprattutto il tema dell’infinito, anche se ritiene che ad esso si acceda speculativamente e non attraverso vie “immediate”.

d) Hegel e Fichte

Hegel muove a Fichte due rilievi. In primo luogo il soggettivismo di Fichte non assimila adeguatamente l’oggetto, lo riduce, insomma, a semplice ostacolo esterno dell’Io, con il rischio di un nuovo dualismo, di tipo kantiano, fra spirito e natura, fra libertà e necessità. In altri termini, la natura, schiacciata dalla signoria del soggetto, perde ogni autonoma giustificazione del proprio essere, finendo per apparire, sia nell’attività conoscitiva che in quella pratica, come una mera forma dell’Io.
Hegel, inoltre, accusa Fichte di aver ridotto l’infinito a semplice meta ideale dell’io finito. Ma in tal modo il finito, per adeguarsi all’infinito e ricongiungersi con esso, è lanciato in un progresso all’infinito incompiuto che non raggiunge mai il suo termine, una circolarità eternamente aperta che non conosce requie o chiusura definitiva. Ora questo progresso all’infinito è, secondo Hegel, il “falso” o “cattivo infinito” (nel senso di imperfetto e di inadeguato) o infinito negativo; non supera veramente il finito perché lo fa continuamente risorgere, ed esprime soltanto l’esigenza astratta del suo superamento. Di conseguenza, Fichte si troverebbe ancora, dal punto di vista di Hegel, in una filosofia incapace di giungere a quella piena coincidenza, che costituisce la sostanza dell’idealismo, tra finito e infinito, razio­nale e reale, essere e dover‑essere, senza lasciare nulla di esterno da assorbire, in cui cioè non può comparire più alcun limite.

e) Hegel e Schelling

Alla filosofia di Schelling, Hegel riconosce il primo reale superamento dell’opposizione fra soggetto e oggetto, superamento che avrebbe potuto portare ad un sistema filosofico che sia effettivamente espressione dell’intero, della totalità. Tuttavia, Hegel critica il carattere a-dialettico del Assoluto schellinghiano, inteso come unità indifferenziata e statica da cui derivano in modo inesplicabile la molteplicità e la differenziazione delle cose. Infatti nellaFenomenologia dello Spirito, Hegel ravvisa nell’Assoluto schellinghiano un “abisso vuoto” nel quale si perdono tutte le determinazioni concrete della realtà e lo paragona alla notte nella quale tutte le vacche sono nere. In altri termini, l’Assoluto di Schelling è un’unità astratta incapace di spiegare la molteplicità delle cose.

Inoltre, Hegel non condivide la tesi schellinghiana (e romantica in generale) per cui la natura sia una sede adeguata della manifestazione dell’Assoluto. Per Hegel, la natura coincide con l’antitesi, con il momento della negazione dell’idea, che ritroverà se stessa solamente nello spirito.

Fichte: la missione del dotto

Fichte: la missione del dotto

Quella appena descritta è la missione dell’uomo, considerato come un individuo isolato. Ma l’uomo non è mai solo, perché è un essere che vive con gli altri e ha la missione di contribuire alla formazione di tutti gli uomini, facendo prendere loro consapevolezza della legge morale che è in ognuno. Rientra tra gli istinti fondamentali dell’uomo l’ammettere che esistano fuori di sé altri esseri ragionevoli a lui simili, e che egli debba entrare in un rapporto di socialità con essi. L’istinto sociale è, dunque, un istinto fondamentale dell’uomo: L’uomo – scrive il filosofo – ha la missione di vivere in società; egli deve vivere in società; se vive isolato, non è un uomo intero e completo, anzi contraddice a se stesso [1].

L’uomo, sentendosi un “io finito”, ma aspirando all’infinito, cerca di superare la propria limitatezza partecipando alla vita degli altri esseri finiti a lui simili per natura, perché dotati di ragione, e in tal modo realizza la società.

Rivolgendosi ai suoi giovani studenti universitari di Jena, nelle celebri Lezioni sulla missione del dotto, Fichte pronuncia le seguenti ispirate e impegnative parole:

Voi giovani siete a vostra volta destinati a operare potentemente sull’umanità, a diffondere un giorno in una cerchia più o meno larga, sia con l’insegnamento che con l’azione, sia in entrambi i modi, la cultura che voi stessi avete ricevuta e così a innalzare beneficamente, per ogni dove, i nostri comuni fratelli a un grado più elevato di cultura; e io ora, operando per la vostra formazione spirituale, contribuisco probabilmente all’educazione di milioni di uomini ancora non nati [2].

Gli uomini devono vivere in società e tendere – questo è il fine supremo della società – alla completa unità di tutti i suoi membri. Tale finalità si basa sul presupposto che gli altri uomini sono esseri ragionevoli simili a noi, con i quali dobbiamo, dunque collaborare in vista del perfezionamento morale di tutti. Infatti, dato che la ragione presente in me richiede che io mi comporti in modo ragionevole nella vita morale, posso esser certo che tale ragione, presente in ogni uomo, richieda il medesimo impegno a tutti. E io stesso, essere dotato di ragione, voglio che la ragione trionfi non soltanto in me – il che sarebbe poca cosa – ma anche negli altri uomini.

Guardando più da vicino il tipo di relazione che gli uomini devono stabilire tra di loro, osserviamo che essi, in quanto dotati di ragione, devono obbedire a una duplice norma, una negativa e l’altra positiva. Innanzi tutto, non devono trattare gli altri uomini come mezzi, ma sempre solo come fini, come aveva già detto Kant. Se, infatti, io calpesto la libertà dell’altro, per ciò stesso distruggo la mia stessa libertà, rendendomi schiavo delle passioni e dell’egoismo. In secondo luogo, la legge morale ci impone di tendere non solo al nostro perfezionamento, ma anche a quello altri, attraverso l’educazione. E ciò si dimostra dal fatto che il fine della società è l’unità di tutti gli individui, un’unità che si consegue soltanto qualora tutti ricerchino la perfezione morale che, pur essendo irrealizzabile, va tuttavia perseguita con tutto l’impegno possibile.

Dalle considerazioni precedenti, Fichte fa discendere un’importante distinzione, quella tra società e Stato. Il vivere nello Stato non rientra tra le finalità assolute dell’uomo, a differenza del vivere in società, che invece si riferisce alla sua stessa natura. Lo Stato è per Fichte qualcosa di meramente empirico, che ora esiste, ma che potrebbe anche scoprire qualora gli uomini fossero migliori. Lo Stato, infatti, è detentore dei poteri della costrizione e della repressione grazie ai quali riporta l’ordine tra gli uomini. Esso è, dunque, uno strumento in vista della migliore organizzazione possibile, ma non è un fine. Al pari delle stesse istituzioni umane, che sono semplici mezzi, esso deve proporsi come proprio obiettivo quello di diventare inutile: scopo di ogni governo è quello di rendersi superfluo, come scopo di ogni buon padre è quello di far crescere il figlio in autonomia e dunque di lasciarlo sviluppare in autonomia. Oggi non è arrivato ancora tale momento, osserva il filosofo, né è possibile dire quando si verificherà, ma è sicuro chesu quella via di progresso che è tracciata a priori all’umanità, è segnato un tal momento, in cui tutte le costrizioni esercitate dallo Stato saranno superflue [3]. La società perfetta, infatti, è quella in cui regna la libera collaborazione tra gli e in cui tutte le volontà riescono a trovare liberamente il reciproco accordo, in una superiore e razionale armonia di intenti. Abbandonandosi all’utopia, Fichte sogna, dunque, un futuro non meglio determinato, in cui l’uomo, libero dagli egoismi e dalle passioni, si farà guidare soltanto dalla ragione, la quale saprà porre rimedio agli errori (sempre possibili), senza bisogno di ricorrere all’autorità coercitiva dello Stato:

È quel momento in cui sarà universalmente riconosciuta, come giudice supremo, la pura ragione in luogo della forza o dell’astuzia. Dico sarà riconosciuta, poiché anche allora gli uomini porranno errare e per errore danneggiare i loro simili; ma essi allora avranno tutti necessariamente la volontà pronta a lasciarsi convincere dell’errore e, appena convinta di ciò, a ritrarsene e a risarcire il danno. Prima che questo momento sia giunto, noi non siamo ancora (universalmente considerati) neppure veri uomini [4].

Per quanto utopistica, questa pagina del filosofo rappresenta, però, la spia più eloquente della sua prospettiva idealistica, che vede l’uomo come caratterizzato dallo sforzo continuo di raggiungere una perfezione che, spostandosi sempre in avanti, non viene mai davvero raggiunta. E al perfezionamento infinito dell’umanità, grazie alla missione del dotto, Fichte dedica le pagine più belle delle sue celebri Lezioni.

Il dotto è la figura dell’intellettuale che ancor più degli altri uomini, non può vivere da solo, incurante delle sorti degli altri. Al contrario, il dotto è destinato in modo specialissimo alla vita sociale, avendo il compito di condurre tutti gli altri alla consapevolezza dei veri bisogni e di indicare i mezzi più adatti per raggiungere tale obiettivo. La missione del dotto è la più alta di tutte, ma ciò non significa che egli debba insuperbirsi, anzi il dotto ha motivi per essere il più modesto di tutti, perché resterà sempre lontano dalla meta che gli è assegnata, quella di realizzare un ideale di umanità assai nobile, che di solito non si riesce a guardare se non da lontano. Ma che cosa deve fare il dotto? Deve provvedere all’eguale sviluppo di tutte le facoltà dell’uomo e stimolare l’umanità a perseguire tale ideale. A tal fine, il dotto deve avere innanzi tutto la conoscenza scientifica dei bisogni umani, intesa però dal punto di vista filosofico, ossia come conoscenza dei doveri spirituali e morali dell’uomo. Da questa prospettiva, Ficthe ritiene che la filosofia sia la scienza suprema, perché è quella che più di tutte, riesce a determinare la vera natura dell’uomo. In secondo luogo, tocca al dotto indicare i mezzi più idonei al raggiungimento della suddetta perfezione spirituale, perché una filosofia in grado di fare ciò sarebbe inesorabilmente pessimistica e inutile. A tale scopo, la filosofia deve farsi coadiuvare dalla storia, che guarda indietro e registra i dati e gli stadi del perfezionamento morale che lo Spirito ha raggiunto nelle epoche del passato. La storia, dunque, è importante perché ci fa cogliere i fatti, ma senza la filosofia è incapace di interpretarli e orientarci verso il futuro. Storia e filosofia, dunque, rappresentano i contenuti essenziali del patrimoni conoscitivo del dotto, un patrimonio che Fichte denomina dottrina del dotto e deve riuscire utile alla società:

Lo scopo di tutte queste conoscenze – scrive Fichte – è dunque, quello di procurare che per mezzo di esse siano sviluppate in modo uniforme, però con costante progresso, tutte le attitudini proprie dell’umanità; e di qui si ricava, allora, la vera missione che è assegnata alla classe colta: essa consiste nel sorvegliare dall’alto il progresso effettivo del genere umano in generale e nel promuovere costantemente questo progresso [5].

Attribuendo al dotto la missione di sorvegliare “dall’alto” il progresso umano, l’autore non intende porre l’intellettuale su un piedistallo che lo separi dagli altri uomini, ma vuole riferirsi alla più profonda cultura del dotto che lo mette in grado di comprendere ciò che gli altri trascurano e, per conseguenza, di guidare il processo della storia. Il dotto, dunque, deve vegliare sui progressi delle altre classi sociali, ma per adempiere a tale gravoso ufficio, deve sforzarsi di progredire egli stesso, poiché dal suo progredire dipendono tutti progressi possibili negli altri campi della cultura.Egli deve essere sempre innanzi agli altri – dice il filosofo – per aprir loro la strada, esplorarla innanzi a loro e fare da guida [6]. Per quanto tali parole oggi possano sembrare fuori luogo, non si dimentichi il contesto storico in cui il filosofo le aveva pronunciate, quando la cultura non era diffusa e l’istruzione muoveva i primi passi nella direzione dell’alfabetizzazione di massa proprio grazie alle intuizioni di Fichte e del suo amico, il grande pedagogista svizzero Johann Heinrich Pestalozzi (1746-1827), che dedicò tutta la sua vita alla causa dell’educazione, aprendo in campagna una scuola elementare per i bambini poveri, in un terreno di sua proprietà.

Domenico Massaro, La Comunicazione Filosofica, Vol II, Paravia, pp. 628-631.

La missione del dotto (sintesi)

Ogni epoca storica presenta determinati aspetti del non-io perché, come detto, superati certi ostacoli, ne nascono di nuovi. Lo scopo principale diviene farsi liberi e rendere liberi gli altri in vista della completa unificazione del genere umano. Si richiede, pertanto, secondo Fichte, la mobilitazione di coloro che possiedono la maggior consapevolezza teorica, cioè dei “dotti”. Infatti, Fichte, nelle Lezioni sulla missione del dotto(1794), sostiene che gli intellettuali non devono essere degli individui isolati e chiusi nella torre della loro scienza, ma devono essere delle persone pubbliche e con precise responsabilità sociali: Il dotto è il modo specialissimo destinato alla società; in quanto tale egli esiste propriamente mediante e per la società…..deve condurre gli uomini alla  coscienza dei loro veri bisogni e istruirli sui mezzi adatti a soddisfarli. Si delinea in questo passo la funzione di guida spirituale del dotto che, quale maestro ed educatore, quale uomo moralmente migliore del suo tempo, deve condurre gli uomini alla consapevolezza dei loro veri bisogni e i mezzi per conseguirli. Si tratta non dei bisogni materiali, ma di quelli spirituali. Il dotto, col suo lucido intelletto, deve guardare più lontano, deve scorgere prima degli altri quali sono gli ostacoli che il non-io pone nell’epoca storica in cui vive e indicare la rotta del progresso, per aiutare l’uomo a elaborare la strategia migliore, atta a superare questi ostacoli che si frappongono all’ulteriore liberazione dell’umanità. L’uomo di cultura deve costituire l’avanguardia dell’umanità che combatte per la propria libertà. Il fine supremo di ogni singolo uomo, come della società tutta intera, e – per conseguenza – di tutta l’operosità sociale del dotto è il perfezionamento morale di tutto l’uomo. Per esercitare la sua funzione di guida, il dotto non deve essere chiuso nell’orizzonte del presente, ma deve guardare al futuro, un futuro visto in modo utopistico dal filosofo come la realizzazione finale dello Spirito assoluto del mondo. Certo, Fichte riconosce in tutti gli uomini il “senso del vero”, ossia quella capacità naturale di riconoscere verità naturali semplici e comuni, che possano costituire le premesse per il riconoscimento della verità come tale, ma tale sentimento del vero da solo non basta: esso dev’essere sviluppato, saggiato, raffinato. In altri termini, il dotto, come già ricordato, deve farsi maestro ed educatore del genere umano.

Sintesi da:

Domenico Massaro, La Comunicazione Filosofica, Vol II, Paravia, pp. 645-647. Abbagnano-Fornero, Itinerari di Filosofia, Vol II B, Paravia, p. 852.

Lezione di Antonio Gargano, preside Istituto Italiano Per Gli StudiFilosofici di Napoli.

 

[1] Fichte, La missione del dotto, La Nuova Italia, Firenze 1939 e 1973, p. 41.

[2] Idem, p. 25.

[3] Idem, pp. 42-43.

[4] Idem, p. 43.

[5] Idem, pp. 91-92.

[6] Idem, p. 94.

Hegel. La Fenomenologia dello Spirito. Dalla Coscienza alla Ragione.

La Fenomenologia dello spirito è la prima esposizione sistematica del pensiero di Hegel ma scritta in fretta tra molte difficoltà: l’esercito di Napoleone invade Jena, l’abitazione di Hegel viene saccheggiata,  gli studenti vengono chiamati alle armi e quindi per Hegel è impossibile fare lezione; viene quindi a mancare lo stipendio che viene dalle rette versate dalle famiglie degli allievi. Nonostante queste avversità, quando Hegel vede sfilare Napoleone per le vie di Jena, non esita a scrivere “Ho visto l’Imperatore, quest’anima del mondo, uscire a cavallo dalla città: è una sensazione meravigliosa vedere un simile individuo, che qui, concentrato in un punto, s’irradia per il mondo, e lo domina“, in quanto rappresentante supremo della Rivoluzione francese. La stesura dell’opera comincia nel 1805 e viene concepita da Hegel come introduzione al volume della Logica, la prima parte del suo sistema, col titolo di Sistema della scienza. Parte prima. Scienza dell’esperienza della coscienza. Tuttavia, nel corso della composizione, essa gli si ampliò fino a diventare, non solo un volume a sé, ma anche l’esposizione dell’intero sistema. La stessa lunga Prefazione, con cui la Fenomenologia si apre, fu composta per ultima, quando l’opera era già stata ultimata. L’opera porta in sè i segni delle difficoltà  che ne hanno condizionato  la nascita: lo stile è oscuro e tormentato, il nuovo titolo, “Sistema della scienza. Parte prima: la Fenomenologia dello spirito”, viene modificato quando l’opera nel 1807 è già in stampa; anche l’indice cambia più volte. L’opera non venne apprezzata dai contemporanei e vendette poche copie. Quando, alcuni anni più tardi, egli scrisse la Logica, avvertì la necessità di collegarla con la Fenomenologia [1]. Soltanto nella riedizione dell’opera, a cui Hegel lavora al momento della morte, il titolo diventa quello attuale, Fenomenologia dello spirito. Nonostante tutte le traversie e l’insuccesso iniziale, la Fenomenologia è l’opera più amata nel ‘900, in quanto rappresentazione dell’esperienza sia individuale che storica in un grande quadro filosofico.

Il termine “fenomenologia” deriva da due parole greche: phainòmenon, “apparire”, “manifestarsi”, e logos, “scienza”, quindi significa “scienza di ciò che appare” alla coscienza. Pertanto essa è la scienza del manifestarsi dialettico della coscienza nel suo cammino razionale progressivo nell’esperienza dei fenomeni, fino a riconoscersi come Soggetto (Spirito). Quale “odissea della coscienza moderna” (Moravia), la Fenomenologia di Hegel ricostruisce la storia immanente dell’esperienza umana [2]: è la descrizione dell’itinerario della coscienza naturale, cioè della coscienza comune o empirica, del modo ordinario di pensare, del sapere implicito nella cultura comune che, attraverso una serie di tappe, dette “figure”, diventa spirito, giunge cioè al sapere vero, facendo compiuta esperienza di se stessa, di ciò che realmente è. La coscienza naturale va intesa

  • sia come coscienza dell’umanità,
  • sia come coscienza del singolo [3] nel suo personale percorso culturale. Ciò significa che ogni singola coscienza ripercorre l’itinerario percorso dallo Spirito nella storia come memoria, come storia già fissata e determinata attraverso le figure, cioè realtà non più fluide ma oramai cristallizzate che compongono un disegno unitario, senza soluzione di continuità tra la tappa successiva con quella precedente.

Nell’itinerario percorso dallo Spirito, la coscienza rivive la storia, conosce e ritrova se stessa, in altre parole, la coscienza si forma, realizza uno sforzo di costruzione di sè ripercorrendo la storia del pensiero umano e prendendo consapevolezza di essere parte di questo processo e ciò lo ricongiunge con l’universale stesso. Per questo la Fenomenologia è stata da molti avvicinata ai “romanzi di formazione”, cioè pedagogici, caratteristici dell’epoca, come, per ricordare soltanto il più noto, il Wilhelm Meister di Goethe.

Alcune figure sono figure della coscienza teoretica, cioè del sapere [4] in senso stretto (certezza sensibile, percezione, intelletto) ma quando si giunge all’Autocoscienza si incontrano atteggiamenti pratici, “situazioni storico-sociali, precisamente individuate nella loro esistenza spaziale e temporale” (Mori), “la spiritualità dell’epoca, il suo senso del diritto e dello Stato, la sua morale; religione, concezione della realtà” (Hartmann), momenti culturali, concezioni del mondo e della vita che travalicano la pura conoscenza, il puro sapere. I fenomeni, oggetto di studio della Fenomenologia, non sono gli oggetti esterni della conoscenza scientifica, come li intendeva Kant, ma le manifestazioni storiche, concrete, dello sviluppo del sapere umano o, come dice Hegel, dello Spirito della storia. Nel processo dialettico gli stadi sono in rapporto reciprocamente negativo, nel senso che lo stadio superiore è superamento di quello inferiore. Ma superamento non significa annullamento degli stadi inferiori, bensì conservazione delle conquiste compiute dalle precedenti figure e insieme superamento dei loro limiti. Ogni momento-manifestazione-stadio-oggettivazione viene oltrepassato, recuperato, approfondito, mantenuto, ricompreso in una nuova figura, più complessa e più aderente alla realtà. Il negativo è, dunque, positivo in quanto innesca il movimento-processo. A muovere la coscienza, generando un movimento dialettico, è, così, la potenza del negativo: ogni oggetto (ed ogni corrispondente configurazione della coscienza) che la coscienza consegue sembra essere, in un primo tempo, la verità finché l’esperienza non ne mostra l’inadeguatezza, determinandone la negazione e l’abbandono per un nuovo oggetto. In altre parole, ad ogni grado, la coscienza fa l’esperienza di non possedere, nell’oggetto, ciò che credeva di possedere. Ma la negazione non è assoluta, è negazione determinata: è nel contempo negazione dell’oggetto e sua conservazione in altro. L’oggetto, avendo in sé la propria negazione, produce da sé l’affermazione positiva nella quale viene negato, cioè tolto e ricompreso. La negazione nega l’oggetto e negandolo si dirige ad una nuova comprensione, che è la figura successiva. La sintesi accoglie in sé sia la tesi che l’antitesi, e così le invera. Accoglierle non vuol dire naturalmente farne una mera somma: la sintesi tiene unito in sé tutto il movimento della posizione, della negazione determinata e della scoperta della loro complementarità. Questo movimento è propriamente il movimento del concetto che è compito della ragione recare alla luce, superando la fissità dei meri concetti astratti istituiti dall’intelletto (Sini). Da quanto detto, si potrebbe affermare che la Fenomenologia consiste in una serie di confutazioni, di argomenti scettici.

Nella Fenomenologia, è la stessa coscienza che, ad ogni tappa, figura, momento, si modifica, si trasforma, si configura diversamente, cresce, nel rapporto con una realtà a sua volta via via più complessa e, attraverso una crescente appropriazione-comprensione-penetrazione dell’oggetto del sapere, essa si scopre gradualmente, si comprende come coscienza e arriva a sapersi come realtà: nel mutare del suo oggetto, il soggetto muta se stesso; comprendendo e appropriandosi dell’oggetto, la coscienza individuale comprende e si appropria di se stessa, abbandonando la propria costitutiva duplicità che è data dall’alterità/opposizione tra io e non-io. La conoscenza dell’oggetto dunque coincide con il conoscersi dello spirito. La conquista della coscienza, nella Fenomenologia, è, quindi, l’identità dialettica di soggetto e oggetto. Autoconoscersi del soggetto e conoscenza dell’oggetto procedono parallelamente e progressivamente fino a giungere al sapere assoluto. In realtà, il sapere della coscienza comune (primo grado della Fenomenologia) è già sapere assoluto, ma ancor privo di coscienza di sé e quindi ad esso diretto. Il sapere assoluto, infatti, non è dato immediatamente, come un “colpo di pistola”, secondo la prospettiva di Schelling. L’Assoluto è unità mediata, non immediata. Il sapere assoluto esige questo lungo, complesso e articolato itinerario che parte sì dal sapere immediato, dalla coscienza comune (conoscenza sensibile, percezione, intelletto), che come tale è privo di spirito, per giungere poi al sapere propriamente detto, passando per l’autocoscienza e la ragione. Con l’itinerario fenomenologico la coscienza esce dalla “caverna platonica” e conquista la scienza. La filosofia, che si occupa della verità e dell’assoluto, cerca nel tempo presente la verità ancora nascosta. La verità, per Hegel, non è parziale, particolare, immediata. La verità sta nella comprensione dell’intero, della totalità, è l’intero movimento, è il processo, il quale si genera i suoi momenti e li percorre. La verità, l’Assoluto è sia il risultato che l’intero processo, cioè il risultato comprende, accumula e conserva tutti i momenti del processo. Il vero-intero ha, certo, un inizio ideale che si sviluppa, ma solo per autodispiegarsi, per esprimersi compiutamente in quello che è già, all’inizio, implicitamente. Nella totalità dei momenti l’Assoluto si realizza, si manifesta in un sistema unitario che è la sua autocoscienza.

Il percorso fenomenologico termina nel momento in cui la coscienza non trova più alcuna “cosa in sè” al di fuori di sè, e arriva così a comprendere che tutto ciò che le sembrava essenzialmente distinto da lei, puramente oggettivo, è in realtà un suo prodotto; un prodotto, però, non della coscienza singola di questo o di quell’individuo ma della coscienza universale, cioè dello Spirito. Viene quindi a cadere la distinzione tra sapere e verità, tra pensiero ed essere.

La Fenomenologia è divisa in due parti:

I parte, composta da tre momenti della coscienza: Coscienza (la conoscenza dell’oggetto), Autocoscienza (la consapevolezza di sè) e Ragione (sintonia che esiste tra soggetto e oggetto, nella misura in cui il primo ritrova nel secondo la propria razionalità);

II parte, composta da tre sezioni: Spirito, Religione, Sapere Assoluto. L’aggiunta di questa seconda parte fu suggerita ad Hegel solo per ragioni editoriali perchè in essa vengono anticipate le conclusioni che poi saranno proprie dell’Enciclopedia. Infatti la Fenomenologia voleva avere solo uno scopo pedagogico: dimostrare come l’autocoscienza non può realizzarsi individualmente ma solo all’interno dello Stato.

Il primo momento, la Coscienza (tesi), è quello in cui l’attenzione è posta principalmente sul soggetto, cioè la Coscienza guarda e conosce il mondo come qualcosa di altro e di indipendente da sé. La Coscienza non è vista come tabula rasa (Locke) o come l’“Io penso” cartesiano, cioè principio da cui si può dedurre tutto il resto. La Coscienza per Hegel si identifica con il pensiero ed è sempre attiva. Essa “pensa” anche le cose che sembrano immediate ma, non sapendo di essere sempre attiva, la coscienza pensa che le esperienze oggettive provengano dall’esterno: non si accorge che sono un suo prodotto perché tutto ciò che esiste, per esistere, è stato pensato.

Questo momento si sviluppa in

  • Certezza sensibile (tesi): è la forma più immediata di rapporto tra noi e il mondo, la prima esperienza della coscienza comune, la prima “figura” che essa esperisce all’inizio della sua formazione; è il momento in cui soggetto e oggetto appaiono nettamente separati perché il soggetto pone la verità fuori di sé, nel particolare, in ciò che è in sé“Il contenuto concreto della certezza sensibile fa sì che essa appaia immediatamente come la coscienza più ricca, visto che le sensazioni sono tante, e come la più verace, infatti coglie immediatamente l’oggetto in tutta la sua pienezza: la coscienza è certa che il dato sensibile immediato, l’oggetto dei sensi, rappresenti la verità, ciò di cui non è possibile dubitare. Qui sta l’inganno dell’empirismo, filosofia secondo cui il pensiero scopre, immediatamente, la sua verità nel dato sensibile, tale evidenza ci induce a concludere che ciò che avvertiamo coi sensi, qui ed ora, sia la verità. In realtà questo grado di conoscenza si rivela come il più fragile e illusorio: la coscienza si rende conto di quanto sia falso porre la verità fuori di sé, nelle cose. Nella forma della certezza sensibile, la coscienza sa solo che l’oggetto che le sta di fronte “è”, “esiste” nell’hic et nunc: è un “questo” individuato nelle dimensioni dello spazio (qui) e del tempo (ora) ma di esso non si sa niente al di là della sua mera presenza. Dire ad es., “adesso è notte” significa affermare una verità che tra alcune ore non sarà più vera! Nel passaggio da questa prima affermazione ad una nuova e diversa, però, qualcosa resta fermo, cioè i termini “questo”, “qui”, “ora” e simili, cioè il linguaggio che si utilizza per descrivere l’esperienza. Infatti, spazio e tempo non sono dimensioni oggettive ma dimensioni del pensiero e come tali hanno un carattere universale. È la situazione di chi, di fronte ad un oggetto sconosciuto, non sapendo designarlo con un nome appropriato, si limita a dire che “esso è”. Non è l’oggetto ad essere certo, ma le sue determinazioni “questo”, “qui” ed “ora” le quali si mostrano come vaghi e vuoti contenitori universali ed astratti, adatti genericamente a tutti gli oggetti e dunque proprie di nessuno. Quindi, per conoscere gli oggetti non basta essere sicuri che essi esistano ma bisogna far riferimento a categorie universali. Ecco quindi un primo “rovesciamento della coscienza”: l’oggetto della certezza sensibile, nella sua immediata singolarità, non ha verità ma questa dipende da qualcosa di soggettivo. La verità coincide, infatti, con ciò che può essere pensato, cioè con ciò che fa riferimento ad una categoria universale e linguisticamente espressa. Proprio nell’impossibilità di esprimere il contenuto singolare della certezza sensibile si manifesta la non verità di ciò di cui la coscienza ha certezza. La crisi della certezza sensibile rinvia all’Io e determina il passaggio alla successiva figura: si tratta di analizzare l’attività dell’Io nella sensazione, ovvero la percezione.
  • La seconda figura della Coscienza è la percezione (antitesi). In questa figura compare un’altra contraddizione: da una parte l’oggetto appare diviso in parti e proprietà (cioè l’insieme delle sue qualità) ma dall’altra esso giunge a noi come oggetto unitario, in altre parole, si percepiscono le cose come unione di qualità sensibili. In un granello di sale, esemplifica Hegel, percepiamo molte qualità (è bianco, sapido, cubico ecc), che costituiscono però una realtà unitaria. Il problema che ci si pone è il seguente: come si concilia l’unità irriducibile di ogni ente con la molteplicità delle sue qualità? In questa figura, la cosa di cui si fa esperienza viene considerata come il sostrato delle diverse qualità che vengono colte: la cosa percepita è vista come “sostrato”, o “sostanza”, cui le proprietà sensibili ineriscono. Così concepita, tuttavia, la “cosa” che unifica in sé le sue proprietà, come insegna l’empirismo, non è reale, ma un’entità prodotta dalla coscienza medesima. Anche secondo Kant, la categoria dell’unità non appartiene all’oggetto, non è intrinseca alla “cosa”, ma è frutto di un’operazione di sintesi compiuta dal soggetto, operazione che consente di fatto la conoscenza dell’oggetto. In effetti, le diversità delle percezioni dipendono dai differenti sensi, e rinviano quindi al soggetto, così come l’unità che definisce la cosa non deriva dalla cosa stessa, ma dal soggetto che la percepisce, nelle funzioni unificatrici della coscienza. È la coscienza a connettere le diverse proprietà percepite. Pertanto, non si dà mai oggetto di conoscenza senza un soggetto attivo nel processo di conoscenza. È la coscienza stessa che, fungendo da “legislatrice dell’esperienza”, opera l’unificazione delle molteplici proprietà della “cosa”, che in tal modo diviene fenomeno nel senso kantiano del termine. In tal modo, la coscienza tende ad uscire dalla mera contrapposizione tra oggetto e soggetto, vedendo in quest’ultimo l’ambito in cui si risolvono le leggi che governano l’oggettività.
  • Con la negazione della verità della percezione (la quale aveva a sua volta negato la certezza sensibile) si giunge così alla terza e conclusiva figura della Coscienza, quella dell’intelletto (sintesi): l’oggetto non viene più percepito dalla coscienza in quanto tale, cioè nella sua individualità, ma solo nelle relazioni con le altre cose, quindi come fenomeno, manifestazione, prodotto di nessi di causa ed effetto i quali per Hegel coincidono con le leggi e le forze che regolano il mondo naturale. È questo, in altri termini, l’atteggiamento scientifico. Hegel, influenzato dall’insegnamento kantiano, ritiene che queste leggi non sono sensibili, ma a priori. In altri termini, è il nostro stesso intelletto a porre le leggi alla natura: le leggi della natura, di cui ogni singolo fenomeno è manifestazione, dunque, sono poste dal nostro stesso intelletto, sono il prodotto di una serie di passaggi logici che lui stesso ha compiuto e tradotto in formule o in espressioni linguistiche. Con queste considerazioni di carattere kantiano sull’intelletto, si arriva ad un primo superamento della contrapposizione soggetto-oggetto, comincia cioè ad affacciarsi timidamente l’idea che soggetto e oggetto non siano, in fin dei conti, due entità radicalmente opposte tra loro. Prima che si giungesse al momento dell’intelletto, vi era un soggetto che conosceva e un oggetto (il mondo) che era conosciuto. Ma se ogni fenomeno che percepiamo è manifestazione della legge della natura e questa è posta dal nostro stesso intelletto, allora tale oggetto non è radicalmente distinto dal soggetto, ma anzi è il soggetto. La verità dell’oggetto sta non nell’oggetto ma nell’io, che “tiene insieme” e costituisce (kantianamente) il mondo sensibile attraverso le proprie categorie (qui entra in gioco quella di causa). In questa fase la Coscienza si rende conto di essere lo strumento che dà forma agli oggetti: il mondo esterno, le “cose”, non sono indipendenti da lei, come sembrava in un primo momento. Ciò significa che è sbagliato pensare che da una parte ci sia il soggetto e dall’altra l’oggetto. In altre parole la Coscienza prende consapevolezza di se stessa e diviene AUTOCOSCIENZA, la certezza che l’Io ha di se stesso.

Ora, se nella prima sezione della Fenomenologia, Hegel ha illustrato momenti esclusivamente conoscitivi, appena si entra nella “tappa” dell’autocoscienza, ci si imbatte in una sfilza di nuove figure storiche e, almeno in apparenza, esulanti dalla gnoseologia: all’analisi della conoscenza segue l’analisi degli aspetti pratici (morali) della vita. Nel suo slancio espansivo, l’autocoscienza si scontra non più solo con gli oggetti della natura inanimata ma anche con gli oggetti della natura animata che le fanno resistenza. Essa si impegna a sormontare questa resistenza, ad assoggettare, a godere, ad assimilare le cose, sperimentando così la loro nullità e la propria potenza. L’Autocoscienza è, quindi, appetito (“L’Io e la concupiscenza o l’appetito”). Essa realizza la propria indipendenza attraverso la continua negazione dell’esistenza indipendente del mondo: essa toglie l’alterità alle cose attraverso la continua appropriazione dell’oggetto desiderato. L’oggetto, il mondo, svanisce. Questo desiderio spasmodico di fagocitare la realtà diviene inquietudine: il soddisfacimento materiale datogli da un oggetto naturale non riesce più a placare l’Autocoscienza, essa ha bisogno del riconoscimento di un’altra autocoscienza.  Hegel spiega che l’io (l’autocoscienza) giunge alla sicurezza del suo esistere solo attraverso un altro io (un’altra autocoscienza, un altro uomo libero e pensante) che lo riconosca come individuo. L’autocoscienza si vede come un’altra autocoscienza la vede. L’autocoscienza è un qualcosa di “riconosciuto”: il contenuto con cui un soggetto si conosce è un contenuto che altri riconoscono in lui. Ciò che il soggetto è, e sa di sé, è oggetto della soggettività altrui. Se prima la coscienza aveva preso consapevolezza di sè nel rapporto con le cose, ora si trova a dover compiere un nuovo cammino di autoconsapevolezza nel rapporto con le altre coscienze. Nasce così la vita relazionale, che segna il passaggio dalla sfera privata a quella intersoggettiva e, quindi, sociale e pratica (nel senso kantiano di “morale”). Questa dialettica del riconoscimento reciproco si svolge attraverso tre passaggi principali: servo/padrone, stoicismo e scetticismo, coscienza infelice. Tale riconoscimento non avviene nella forma dell’amore, cioè in modo pacifico e imbelle, ma è il risultato di una lotta molto simile a quella prospettata da Hobbes. Tale lotta termina solo quando una delle due autocoscienze si sottomette all’altra. Vince, diventa padrona l’autocoscienza più forte, quella che mette in gioco se stessa, quella che mostra di essere indipendente dal legame con la vita al punto da metterla a repentaglio, elevandosi ad un livello superiore rispetto alla pura naturalità. Questa è il signore. Perde, rimane al livello della naturalità quell’autocoscienza che si mostra asservita alla vita, che preferisce la materialità alla spiritualità, che rifiuta di rischiare, che rinuncia alla propria autodeterminazione, quindi alla propria libertà. Questa è il servo. Naturalmente Hegel, secondo i dettami dell’idealismo, non fa riferimento alla forza fisica e materiale, ma a quella spirituale e dice testualmente che colui che diventa padrone è colui che non ha avuto timore della morte. C’è chi, piuttosto di diventare schiavo, preferisce correre il rischio della morte e chi, viceversa, piuttosto di correre il rischio della morte, preferisce diventare schiavo: in altre parole, vince per davvero chi fa prevalere dentro di sé l’aspetto spirituale, universale (rifiutando la servitù) e riesce a sconfiggere quello materiale, propria di colui che è chiuso nella propria singolarità (il timore della morte della carne). Disprezzando la servitù e preferendo la morte, si trionfa, ancor prima che sul nemico, all’interno di se stessi, facendo vincere la spiritualità. Entrando nel dettaglio della dialettica servo-padrone, prima figura dell’Autocoscienza, che è identificabile nel periodo greco-romano o per altri critici nel dispotismo orientale, bisogna precisare che:

  • qui, la servitù, più che la subordinazione materiale (le catene dello schiavo), esprime una dipendenza interiore;
  • tali rapporti conflittuali non devono mai portare all’annullamento dell’autocoscienza antagonista, poiché un’autocoscienza non può davvero essere tale se non in rapporto con altre autocoscienze: venendo meno uno dei due opposti, anche l’altro si sgretola. Perciò il rapporto-conflitto tra le autocoscienze non porta mai alla distruzione totale di uno dei rivali, bensì porta all’asservimento, ovvero al prendere possesso in forma di schiavitù dell’autocoscienza antagonista: un’autocoscienza diventa padrona, l’altra schiava.

Marx apprezzò tale figura in modo particolare per la grande abilità con cui Hegel tratteggia la nascita della schiavitù ma ancora di più per il fatto che Hegel dimostra che quello tra servo e padrone è un rapporto dialettico, dinamico e aperto al capovolgimento. Infatti, con la tecnica del capovolgimento dialettico, il rapporto di schiavitù tende a stravolgersi nel suo contrario con la conseguenza che il vero padrone è il servo. In particolare, Hegel fa notare che il rimedio di asservire l’altra autocoscienza senza eliminarla, in realtà porta inevitabilmente all’eliminazione della figura del signore, poiché si finisce per considerare l’autocoscienza-serva non più come un’autocoscienza, ma come una ‘cosa’. Infatti, il padrone, come già aveva dimostrato Aristotele, considera il proprio servo come una cosa, alla pari del bue o dell’aratro. In altre parole, dinamiche come quella di dominio/sottomissione non possono produrre forme autentiche di riconoscimento poiché viene a mancare il momento dialettico dell’oggettivazione, del riconoscimento di sé: autentico riconoscimento si ha solo nel momento in cui ogni autocoscienza offre liberamente all’altra la propria indipendenza in un rapporto di mutuo riconoscimento. Il servo, invece, dipendendo dal signore, non ha autonomia, è ridotto ad una cosa al pari di un qualsiasi oggetto della natura. Il padrone, non avendo più un’autocoscienza con cui confrontarsi, perde la propria natura di autocoscienza, infatti, il riconoscimento che riceve dal servo non è quello che voleva ottenere all’inizio, non è il riconoscimento da parte di un’autocoscienza di pari dignità ed è quindi inautentico in quanto non avviene liberamente. Il padrone, insomma, non avendo più un’autocoscienza con cui confrontarsi, perde la propria stessa natura di autocoscienza e alla fine il vero padrone è il servo stesso, l’unico che si confronti con un’autocoscienza [5], l’unico ad avere di fronte a sé un’autocoscienza che è quella del padrone.

Diverso sarà anche il rapporto col mondo materiale: anche qui siamo di fronte al capovolgimento dialettico per cui ad essere veramente importante è il servo e non il padrone.  Il padrone non lavora, il servo sì: il servo è uno strumento mediante il quale agire sulle cose ma si tratta di un dominio solo apparente. “Lavorare” significa dominare le cose mettendo l’impronta dello spirito nella materia. Il padrone, costringendo il servo a lavorare al suo posto, vive la natura passivamente, attraverso un rapporto di mera fruizione ma non impone su di essa il proprio suggello: non si confronta con il mondo della natura che oppone resistenza e rinuncia a dominarlo, rendendosi dipendente dal servo.  Dall’altra parte il servo aveva perso la propria indipendenza per aver avuto paura della morte, pertanto, l’autocoscienza servile è l’autocoscienza del soggetto che, come immagine di sé, ha l’immagine che l’altro (il signore) si è fatto di lui. In altre parole, l’autocoscienza servile concepisce la sua esistenza come schiavitù, e non vede altro senso per la propria esistenza che la mera esecuzione della volontà del signore. Il signore è la verità, l’essenza, l’assoluto del servo. Il servo, tuttavia, diviene libero nella misura in cui padroneggia e trasforma le cose da cui il signore riceve il proprio sostentamento, cioè attraverso il lavoro. Più in particolare, questo processo di progressiva acquisizione di indipendenza da parte del servo avviene attraverso tre momenti:

  • paura della morte cioè non la paura di questo o di quello, ma la paura di perdere la propria essenza;
  • servizio, col quale il servo si autodisciplina e impara a vincere la paura e gli altri istinti naturali;
  • lavoro, attraverso il quale perviene alla coscienza della propria indipendenza, della sua capacità di dar forma alle cose, di trasformare la natura recalcitrante e ostile dandole il proprio ordine, di oggettivarsi in essa e quindi umanizzarla, conferendole cioè spiritualità, trasformandola in un prodotto spirituale: un tavolo non è solo un albero tagliato in un certo modo, ma un insieme di valori e di funzioni spirituali, un oggetto in cui è impressa la traccia dello spirito umano. Quindi, attraverso il lavoro, il servo non è più quello di prima, diviene un altro, o meglio, come dice Hegel, nel lavoro la coscienza prende consapevolezza di sè, ritrova se stesso, ritrova la sua libertà, la sua spiritualità [6]: se il padrone, privo di un riconoscimento autentico, si è dissolto, il servo, attraverso il lavoro, prende consapevolezza della sua superiorità in quanto soggetto autonomo, libero.

Si è realizzato quindi un capovolgimento dialettico: il servo diviene autocosciente mediante il lavoro, mentre il signore, che ha rinunciato ad uscire da sè, a confrontarsi con le cose lasciando al servo questo compito, perde gradualmente l’autocoscienza. Tuttavia, la libertà del servo è solo astratta perché egli di fatto è ancora dipendente dal signore: lo schiavo in catene può certo considerarsi libero e superiore nei confronti di colui che lo opprime, ma non per questo le catene cesseranno di vincolarlo. La coscienza, insomma, perviene alla conclusione che la sua è una libertà solo interiore: egli è libero solo nel pensiero puro, slegato dalla vita [7]. Questa concezione della libertà è la conclusione a cui la coscienza viene condotta dallo stoicismo e dallo scetticismo, due atteggiamenti filosofici e intellettuali entrambi impegnati a criticare e a dissolvere la realtà. Ma queste sono forme di libertà ancora “astratte” e conducono, come vedremo, la coscienza alla sua infelicità. Spetta allo stoicismo il merito di aver tentato di uscire da questa condizione in cui si trova il servo insegnando che a contare non è la condizione materiale in cui ci si trova (tant’è che furono allo stesso modo stoici un re, Marco Aurelio, e uno schiavo, Epitteto) ma il pensiero puro che afferma la sua sua superiorità su ogni forma particolare di esistenza. Pur ammettendone l’esistenza, lo Stoicismo nega l’importanza del mondo materiale verso il quale assume come atteggiamento l’atarassia, cioè l’indifferenza: la coscienza rimane del tutto impassibile di fronte  alla relazione con l’altro e con il mondo esterno, qualunque sia la forma in cui l’altro e la realtà si presentino. La coscienza si sente libera sotto qualsiasi condizione, sul trono e in catene. Tuttavia, il “sé” della coscienza stoica rimane un “sé” estraniato, un “sé” schiacciato dalla propria interiorità, un “sé” separato dalla molteplicità delle cose e che quindi concepisce astrattamente l’alterità. Una più radicale negazione dell’alterità si realizza nella coscienza scettica: lo scetticismo porta alle estreme conseguenze queste considerazioni e, perpetuando, dilatando e assolutizzando la spaccatura tra interno ed esterno, arriva a mettere in dubbio l’esistenza di un mondo esterno al soggetto e invita a comportarsi come se il mondo materiale non esistesse.  Lo scetticismo fa piazza pulita di tutto ciò che la coscienza prendeva come sicuro, dei dati dei sensi, della percezione, del pensiero, ma anche dei costumi, delle norme e delle leggi vigenti (Hartmann)L’indifferenza verso il mondo da parte dello scettico, la negazione di ogni oggettività e l’affermazione solo della propria consapevolezza, della propria soggettività, si traduce in libertà assoluta ma astratta: la libertà così concepita è vuota, incapace di appagare la coscienza stessa. Spingendo fino in fondo il ragionamento, lo scettico cade in contraddizione logica interna: se si deve dubitare dell’esistenza del mondo materiale, allora si deve dubitare di tutto, coscienza compresa. In effetti, il ragionamento scettico è paradossale: da una parte sostiene che niente è vero (quindi non esiste la verità), dall’altra pretende di dire una verità (cioè che niente è vero); in realtà, la potenza nientificante di questa contraddizione si volge anche verso la stessa coscienza. Il risultato è che la coscienza stessa, insieme a tutto il resto, perde valore e fiducia in se stessa: è quello che Hegel designa col nome di momento della coscienza infelice, nella quale Hegel esprime la sua visione della cultura tardoantica e dell’Alto Medioevo. La conquista della libertà dal mondo esterno non appaga l’autocoscienza, anzi questa è segnata da una lacerazione interna, risultando profondamente scissa in due realtà, l’una positiva (l’immutabile e l’uguale, o nel linguaggio hegeliano, l’intrasmutabile), l’altra negativa, in un divenire (il trasmutabile). Il positivo viene proiettato dalla coscienza fuori di sè, in un Essere irraggiungibile, perfetto e immutabile, un Dio trascendente; mentre il negativo è posto nella condizione umana. L’individuo non riesce a conciliare la dimensione limitata della propria esistenza con l’essenza eterna e immutabile che il pensiero gli ha reso accessibile: Dio. La coscienza infelice è, quindi, la coscienza che vive se stessa come coscienza finita, mortale, che per esistere deve ancorarsi a una realtà assoluta, infinita, del tutto estranea alla coscienza stessa (=Dio trascendente). In questa figura c’è quindi una profonda scissione tra l’autocoscienza dell’uomo (finita, mutevole e soggetta al peccato) e l’oggetto della coscienza, lo scibile, la realtà vera, assoluta, infinita, a cui la coscienza tende senza mai poterla raggiungere. La coscienza infelice è dunque la religione concepita come alienazione e più in generale la separazione tra finito e infinito, avvertita come scissione dolorosa. Con tale scissione tra soggetto e realtà, tra l’uomo e Dio, tra l’immutabile e il mutevole, si chiude l’Età antica e si apre il Medioevo cristiano. Hegel, a differenza della maggior parte dei Romantici, non guarda con simpatia al Medioevo poiché in esso è il momento in cui domina la coscienza infelice. L’infelicità non indica una condizione psicologica o sentimentale, ma la consapevolezza di questa separazione ancora irrisolta, la consapevolezza della propria finitudine in rapporto a Dio: è la nostalgia dell’infinito, identificato con la divinità e avvertito come irraggiungibile da parte della coscienza umana, collocata in questo  mondo ma rivolta all’altro. Nella figura della Coscienza infelice ogni accostamento dell’uomo alla Divinità trascendente significa una mortificazione, un’umiliazione, un sentire la propria nullità, e da ciò deriva appunto l’infelicità. In realtà, tale scissione aveva registrato il suo momento più acuto con l’ebraismo, in cui Dio viene considerato come un giudice severo, dimorante in una trascendenza assoluta. Questa distanza viene colmata in una certa misura dal cristianesimo, il cui Dio, incarnandosi nell’uomo, si avvicina alla coscienza e al mondo. Questo tentativo di ricongiungersi con il divino per il tramite di un momento sensibile (Dio incarnato) si rivela però illusorio. Nel cristianesimo si cerca insomma di rendere accessibile il Dio trascendente per mezzo del Dio incarnato (Gesù Cristo); tuttavia, secondo Hegel, la pretesa di cogliere l’Assoluto in una figura storica è destinata al fallimento, perché Cristo, vissuto in uno specifico e irripetibile periodo storico, risulta pur sempre lontano e quindi per la coscienza rimane separato, estraneo. Dal punto di vista storico, ciò è evidente nell’evento delle crociate, in cui la coscienza, desiderosa di riunificarsi col divino per mezzo della pienezza sensibile, trova solo una desolante assenza: il “sepolcro vuoto”. La figura del sepolcro riguarda sia la coscienza infelice medievale sia la coscienza intesa come soggettività ancora legata alla realtà sensibile, al qui. Hegel vedrà nella figura delle crociate il simbolo storico di una verità metafisica: il sensibile non può contenere il concetto. Di conseguenza, anche con il cristianesimo, la coscienza continua ad essere infelice e Dio continua a configurarsi come un irraggiungibile al di là che sfugge. La vicenda della coscienza infelice trova il suo culmine, ma anche la sua conclusione, nell’ascetismo del cristianesimo medievale. Le figure dell’infelicità cristiano-medioevale sono:

  • la devozione, cioè il pensiero religioso-sentimentale che non è ancora elevata a concetto, essendo emozione pura e semplice. Pertanto il suo oggetto, Dio, resta qualcosa di estraneo, incomprensibile, trascendente; la coscienza tende verso l’immutabile, ma questi le sfugge continuamente e ciò la rende prigioniera in questa tensione, tipicamente romantica, di una infinita nostalgia che aumenta il dolore della scissione;
  • il fare o l’operare, cioè la coscienza rinuncia a cercare l’immutabile, ma cerca di esprimersi nel desiderio e nel lavoro. Anche questa esperienza ha però in sé una scissione: il lavoro, le nostre capacità vengono intese come doni di Dio. In questo modo, l’uomo si sente passivo nel suo operare;
  • la mortificazione di sé, cioè il momento di massima disperazione della coscienza relativamente alle proprie possibilità. L’ascetismo del cristianesimo medievale porta l’uomo a rinunciare ai propri piaceri, alla proprietà, alla volontà, al proprio io, alla propria individualità, a provare ripugnanza verso ogni aspetto naturale dell’esistenza. E’ questa la scelta dell’asceta, che rinuncia a ogni piacere e mortifica il corpo. Ma questa rinuncia dolorosa e drammatica è ciò che gli consentirà di riconoscere una volontà universale, Dio, come libertà assoluta e di unificarsi ad essa dopo essersi spogliato di ogni realtà particolare, sia interiore che esteriore. È questo il momento in cui avviene l’unificazione mistica col divino. Con l’ennesimo capovolgimento dialettico, che parte dalla concezione di un Dio radicalmente opposto all’uomo, si arriva con la mistica alla concezione di un’unità inscindibile tra uomo e Dio, si chiude la seconda tappa (autocoscienza) della Fenomenologia e si apre la terza, la tappa della ragione. L’ascetismo diviene il momento più alto: rinunciando a sè, la coscienza si avverte parte di una realtà superiore, diviene consapevole che la propria individualità ha una dimensione più ampia del sue esistere particolare. Attraverso l’esperienza ascetica, l’uomo si innalza a Dio e si perde in Lui, trova il divino in se stessa. L’autocoscienza si rende conto di comprendere in sé l’intera realtà, di essere ogni realtà, di essere ragione.

La ragione è vista come il momento di unità e di conciliazione: solo chi ha sperimentato l’impotenza, lo svuotamento, la separazione può superare questa condizione, giungendo alla consapevolezza che nulla esiste all’esterno di se stesso. Hegel definisce la ragione come certezza di essere ogni realtà, ossia dell’acquisizione dell’unità di pensare e di essere. Vi è dunque quel passaggio da mistica a ragione che vi è stato anche nella realtà storica, quando dal Medioevo si è passati al Rinascimento. La ragione è certezza di essere ogni realtà grazie all’esperienza mistica: con essa, infatti, l’uomo si è assimilato a Dio e ha acquisito la certezza di essere ogni realtà, ovvero ha superato il dualismo soggetto/oggetto. Mistica e ragione sono pertanto due passi contigui: da notare che Hegel usa l’espressione certezza di essere ogni realtà e non sapere di essere ogni realtà, poiché se fosse un sapere sarebbe già il punto di arrivo. “Certezza”, invece, è il punto di partenza, è la dichiarazione generale che il soggetto ha acquisito consapevolezza di essere ogni realtà: dopo tale dichiarazione, spetta alla ragione cercare se stessa nella realtà, quasi come se si sapesse ciò che si è ma si dovesse cercare di capire il come e il perché. Si tratterà pertanto di una ricerca che la ragione conduce nella realtà in cerca di se stessa attraverso vai tentativi rappresentati da altrettante tappe. Queste tappe ripetono, ad un livello più alto, in forma di spirale ascendente, i tre momenti precedentemente esaminati.

[1] Hegel, “però non poté non avvertire le interferenze tra le due opere, per il fatto stesso che trapiantò nella Logica alcune sezioni della Fenomenologia … E una fenomenologia molto ridotta, che esponeva i momenti dello sviluppo della coscienza, fu da lui inserita, tra l’antropologia e la psicologia, nella sezione dell’Enciclopedia dedicata allo spirito soggettivo” (De Ruggiero).

[2] Non è certo l’esperienza del senso comune, ma un’esperienza la cui sicurezza è già scossa e che è invasa dal sentimento di non possedere tutta la verità (Marcuse).

[3] L’individuo particolare ha per Hegel il significato di una finitizzazione, è lo spirito incompiuto … Non questo, dunque, bensì l’individuo universale è l’oggetto autentico della Fenomenologia. Il singolo deve ripercorrere i gradi di formazione dello spirito universale, come figure dello spirito già deposte, come tappe di un cammino che è già tracciato e spianato (Prefazione alla Fenomenologia).

[4] Come già detto, alcune triadi dialettiche sono atemporali (ed è il caso della coscienza e dei suoi tre momenti), altre temporali e storiche poiché i successivi momenti sono collocabili storicamente lungo una sequenza cronologica. Tuttavia, anche quando Hegel parla di tappe storiche non dobbiamo pretendere che egli segua una successione rigidamente cronologica, poiché sta semplicemente descrivendo tappe logiche di uno sviluppo che spesso (ma non sempre) seguono un loro ordine cronologico. Nello stesso studio della storia, del resto, si parla delle varie tappe dello stato moderno, ma sono tappe ‘ideali’ che non trovano un preciso riscontro nella realtà: si tratta semplicemente di un modo di ricostruirla in una sequenza temporale, senza ad esempio tener troppo conto delle varie differenziazioni tra uno stato e l’altro. Anche quelle che Hegel tratteggia sono tappe ideali, diverse dalla storia vera e propria: ed è proprio questa la differenza che Hegel scorge tra una filosofia della storia quale è la sua e una storia cronologica, pura elencazione di fatti in ordine cronologico. È opportuno, insiste Hegel, cogliere gli elementi di razionalità che reggono la storia secondo tappe ideali, evitando di incappare in una pedante descrizione di fatti.

[5] La figura della dialettica Padrone-Servo è stata apprezzata soprattutto dai marxisti, i quali hanno visto in essa un’intuizione dell’importanza del lavoro e della dialettica della storia, nella quale, grazie all’esperienza della sottomissione, si generano le condizioni per la liberazione. Resta tuttavia una differenza fondamentale tra Marx ed Hegel: infatti la figura hegeliana non si conclude con una rivoluzione sociale o politica, ma con la coscienza dell’indipendenza del servo nei confronti delle cose e della dipendenza del padrone nei confronti del lavoro servile.

[6] Questo punto della Fenomenologia rileva la notevole preparazione in materia di economia di Hegel, per il quale i conflitti non sono spirituali ma anche sociali e politici, nonché la riabilitazione che egli compie del lavoro.

[7] Fuor di metafora, questa situazione si verifica nel periodo della civiltà ellenistico-romana, quando si verifica la perdita delle libertà collettive, che avevano contrassegnato la polis, e l’affermarsi di imperi e regni dispotici. La perdita di libertà da parte del mondo greco si accompagna alla diffusione della sua cultura, che di fatto conquista il mondo occidentale. Ciò vuol dire che, pur in tempi di paura e di servitù, l’autocoscienza è libera nel senso che, come pensiero, essa è svincolata dalle condizioni esteriori.

CARTESIO (da Abbagnano)

Secondo Hegel, con Cartesio possiamo finalmente gridare “terra”, come il navigatore dopo una lunga traversata nel mare impetuoso. Infatti, con Cartesio, per usare le parole di Husserl, la filosofia cambia radicalmente percorso. L’io penso, la “terra” di cui parla Hegel, farà di Cartesio il padre della filosofia modermna: la sua grandezza, infatti, deriva dall’aver posto al centro del dibattito filosofico l’uomo e la conoscenza, trasformando così la filosofia da scienza dell’essere a dottrina della conoscenza (gnoseologia) ed evidenziando il valore metodologico della matematica. Cartesio è, dunque, all’origine del razionalismo moderno, la corrente filosofica, formata principalmente Cartesio, Spinoza e Leibniz, che tra Seicento e Settecento assegna alla sola ragione, slegata dall’esperienza sensibile, il compito della ricerca della verità. In effetti egli vive durante la rivoluzione scientifica che aveva stravolto la visione tradizionale del mondo: Copernico aveva descritto un nuovo universo col modello eliocentrico; Bacone aveva inaugurato un nuovo modo di concepire la filosofia, intesa come sapere pratico e utile e strettamente unito alla tecnica; Galileo aveva individuato nella matematica lo strumento della ricerca.

La riflessione filosofica e scientifica di Cartesio venne per così dire “illuminata da tre sogni “rivelatori” avvenuti nella notte del 10 novembre 1619 e descritti negli Olympica, scritti giovanili andati persi. I sogni culminarono con la visione di un libro nel quale stava scritto: Quod vitae sectabor iter?, cioè “quale percorso di vita seguirò? Nell’immediato, Cartesio interpretò questa frase come un invito generico alla saggezza. Ma, alla luce del successivo sviluppo del suo pensiero, si nota un’interessante coincidenza: iter, percorso, in greco viene espresso con il termine methodos (hodos = la via, meta = oltre, quindi “la via che conduce oltre”.

  1.  Il metodo

Cartesio ritiene che per poter raggiungere la verità sia necessario risalire alle cause prime da cui dipende la realtà. Per far ciò è necessario procedere in modo sistematico senza limitarsi a considerare solo le cause di alcuni effetti particolari osservabili in natura. La filosofia è dunque in primo luogo metafisica e la verità delle altre discipline si regge esclusivamente sulla metafisica. Cartesio afferma nei Principi di filosofia che l’albero del sapere ha le sue radici nella metafisica, il tronco nella fisica, mentre i rami ne rappresentano tutte le scienze e la morale. Lo strumento di indagine proprio della metafisica è la ragione che deve elaborare un metodo sicuro per distinguere il vero dal falso. Tale metodo dev’essere un procedimento semplice e lineare che è in grado di risolvere in elementi semplici anche le questioni più complesse. Il modello di riferimento diventa quindi la matematica, che Cartesio intende non come disciplina particolare ma come mathesis universalis, vale a dire come strumento che permette all’uomo di concepire la realtà in modo vero. La matematica abitua la mente a cibarsi della verità.

Come Montaigne, Cartesio non vuole insegnare, ma descrivere se stesso: egli parla perciò in prima persona. Il suo problema emerge dal bisogno di orientamento avvertito all’uscita dalla scuola di La Flèche, quando, pur avendo assimilato con successo il sapere del tempo, il giovane René si accorge di non avere alcun criterio sicuro per distinguere il vero dal falso, ma di avere appreso nozioni che poco o nulla servono alla vita. In una famosa pagina del Discorso sul metodo, Cartesio narra le delusioni provate nel ricercare il vero una volta uscito dal collegio. Prima racconta di aver cercato nei libri, poi nel “gran libro del mondo” e, infine, in se stesso.

I termini del problema

L’orientamento, il criterio, il metodo che Cartesio cerca è nello stesso tempo teoretico e pratico: esso, infatti, deve condurre a saper distinguere il vero dal falso anche e soprattutto in vista dell’utile e dei vantaggi che possono derivarne alla vita umana. La filosofia che ne risulterà dovrà pertanto essere una filosofia “non puramente speculativa, ma anche pratica, per la quale l’uomo possa rendersi padrone e possessore della natura”.

Una simile forma di sapere dovrà mettere a disposizione dell’uomo congegni che gli facciano godere senza fatica dei frutti della terra e di altre comodità e dovrà mirare alla conservazione della salute, la quale è il primo bene in questa vita. Cartesio è francamente ottimista sulla possibilità di un tale sapere, il quale, egli pensa, potrebbe condurre gli uomini a essere esenti “da un’infinità di malattie, tanto del corpo quanto dello spirito, e forse anche dall’indebolimento della vecchiaia(Discorso sul metodo, VI, 1).

Il metodo dev’essere dunque un criterio di orientamento unico e semplice, un protocollo, cioè un insieme di procedure utili all’uomo in ogni campo teoretico e pratico per guidare la ricerca, e che abbia come ultimo fine il vantaggio dell’uomo nel mondo. Questa unità del metodo, pur nella diversità delle sue applicazioni, viene riconosciuta da Cartesio già nelle Regole per dirigere l’ingegno. Qui egli afferma che la saggezza umana è una sola, quali che siano gli oggetti a cui si applica; ed è una sola perché uno è l’uomo nelle sue diverse attività.

Nel formulare le regole del metodo, Cartesio si avvale soprattutto della matematica: le scienze matematiche, per Cartesio, sono già in possesso del metodo, che applicano normalmente. Eppure prendere coscienza delle regole metodiche della matematica, astrarle da tali discipline e formularle in generale per poterle applicare a tutte le altre branche del sapere non è sufficiente. È necessario, infatti, anche giustificarle. In altri termini, si tratta di giustificare il metodo e la possibilità della sua applicazione universale. Il fatto che le matematiche siano già in possesso della pratica del metodo facilita senza dubbio il compito del filosofo; ma questo compito comincia veramente soltanto con la giustificazione (o fondazione) delle regole metodiche: giustificazione che sola ne consente e autorizza l’applicazione a tutti i domini del sapere umano.

Cartesio deve dunque:

  • formulare le regole del metodo, tenendo soprattutto presente il procedimento matematico, nel quale esse già sono in qualche modo presenti;
  • fondare con una ricerca metafisica il valore assoluto e universale del metodo individuato;
  • dimostrare la fecondità del metodo nei vari rami del sapere.

Tale è il compito filosofico di Cartesio. (CFR La matematica universale, pag 183).

Le regole

Per quanto riguarda il primo punto, la seconda parte del Discorso sul metodo ci dà la formulazione più matura e semplice delle regole del metodo. Esse sono quattro:

l ) Non accogliere mai nulla per vero che non conoscessi esser tale con evidenza. Questa regola, che è per Cartesio la fondamentale, prescrive l’evidenza. L’evidenza è un atto intuitivo che riguarda le nature semplici. Proprio per questo si autofonda, si autogiustifica: essa infatti è chiara e trasparente e non ha bisogno di alcuna dimostrazione. L’intuizione richiede che tutti gli oggetti del pensiero siano chiari e distinti, escludendo ogni elemento suscettibile di qualche possibile forma di dubbio. Più precisamente, con “chiare” si intendono le idee che vengono conosciute in modo dettagliato e completo, senza tralasciare nessuno degli elementi, nessuno degli attributi che le compongono; “distinte” sono le idee ben delimitate e separate da altre idee così da non poter essere confuse con altre idee.

2) Dividere ciascuna delle difficoltà da esaminare nel maggior numero di parti possibili e necessarie per meglio risolverla. Questa è la regola dell’analisi, per la quale un problema viene risolto nelle sue parti più semplici, da considerarsi separatamente. Occorre dunque affrontare i problemi procedendo dal complesso al semplice. Per l’intuizione è necessaria la semplicità.

3) Condurre i miei pensieri ordinatamente, incominciando dagli oggetti più semplici e più facili a conoscersi per risalire a poco a poco, quasi per gradi, fino alle conoscenze più complesse. Questa è la regola della sintesi, per la quale si passa dalle conoscenze più semplici alle più complesse gradatamente, presupponendo che ciò sia possibile in ogni campo.

4) Fare in ogni caso enumerazioni cosi complete e revisioni così generali da essere sicuro di non omettere nulla, e rivedere di non aver fatto errori nella sintesi. L’enumerazione controlla l’analisi, enumerando tutti gli elementi più semplici precedentemente individuati; la revisione controlla la sintesi. Questa regola offre così il controllo delle due precedenti. (CFR Il metodo e le sue regole, da pag184 a pag 186)

Cartesio si lascia andare all’ottimismo che lo porta a dire che il risultato del metodo potrebbe condurre l’umanità a essere esente da un’infinità di malattie, tante nel corpo quanto nello spirito, e forse anche un indebolimento della vecchiaia.

  1. Il dubbio e il cogito ergo sum

Come abbiamo anticipato, le regole metodiche individuate da Cartesio non hanno in sé la propria giustificazione. Neppure il fatto che la matematica se ne serva con successo le giustifica, perché esse potrebbero avere utilità pratica ai fini delle sole discipline matematiche, ma non essere applicabili in altri campi, e ciò le destituirebbe della necessaria validità assoluta. Compito della filosofia è scoprire la prima fra tutte le verità: la scoperta del proprio sé attraverso l’esercizio del dubbio. Cartesio deve quindi tentare di giustificare le regole metodiche, di garantirne la verità del giudizio, risalendo alla loro radice: l’uomo come soggettività, o come ragione. Cartesio, insomma, riesce ad isolare il ruolo dell’io, della coscienza nei processi della conoscenza.

Dal dubbio metodico al dubbio iperbolico

In base alla prima regola del metodo, Cartesio si mette dunque alla ricerca di un qualcosa di evidente che costituirà proprio il fondamento del sapere umano. Trovare il fondamento di un metodo che dev’essere la guida sicura della ricerca in tutte le scienze è possibile, secondo Cartesio, solo con una critica radicale di tutto il sapere già dato, con il rifiuto dei pregiudizi, evitando di mescolare congetture anticipate, frettolose, non dedotte esclusivamente da ciò che possiamo intuire con chiarezza ed evidenza. Che cosa possiamo conoscere con chiarezza e distinzione, senza alcuna possibilità di dubbio?

La prima fase del dubbio va sotto il nome di DUBBIO METODICO. Innanzi tutto bisogna sospendere l’assenso a ogni conoscenza comunemente accettata, dubitare di tutto e considerare almeno provvisoriamente come falso tutto ciò su cui il dubbio è possibile. Se, persistendo in questo atteggiamento di critica radicale, si giungerà a un principio sul quale il dubbio non è possibile, questo principio dovrà essere ritenuto saldissimo e tale da poter servire di fondamento a tutte le altre conoscenze. Ora, Cartesio ritiene che nessun grado o forma di conoscenza si sottragga al dubbio. Il dubbio metodico è diverso da quello degli scettici: non è perenne, fine a se stesso, ma un mezzo per giungere alla verità. Il dubbio metodico investe l’intero mondo sensibile e l’immaginazione, sia perché i sensi qualche volta ci ingannano e quindi si deve dedurre che essi possano ingannarci sempre, sia perché si hanno nei sogni conoscenze simili a quelle che si hanno nella veglia senza che si possa trovare un sicuro criterio di distinzione tra le une e le altre: niente può garantire che la veglia non sia un sogno. L’esistenza del mondo esterno e così anche del mio stesso corpo, per il momento, viene rifiutata come oggetto di una falsa credenza.

La seconda fase è quella del DUBBIO IPERBOLICO o UNIVERSALE, cioè esagerato: il dubbio si estende a ogni cosa e diventa assolutamente universale (de omnibus dubitandum est). Il dubbio iperbolico intende minare persino la certezza che accompagna le conoscenze matematiche: queste ultime sono vere sia nel sogno, sia nella veglia (2 + 3 fa sempre 5 sia che si dorma, sia che si vegli), ma neppure queste conoscenze si sottraggono al dubbio, perché anche la loro certezza può essere illusoria. Infatti, finché non si sappia qualcosa di certo intorno a noi e alla nostra origine, si può sempre supporre che l’uomo sia stato creato da un genio maligno, cioè da una potenza malvagia che si sia proposta di ingannarlo facendogli apparire chiaro ed evidente ciò che è falso e assurdo. Si tratta ovviamente di una finzione, ma il solo fato di poter fare quest’ipotesi (e si può farla, dato che non si sa alcunché) mi consente di supporre che anche le conoscenze che appaiono soggettivamente più certe si rivelino dubbie e capaci di celare l’inganno.

Con un procedimento concentrico, abbiamo perduto prima la certezza del mondo esterno e poi del mondo interno alla mente. Ma proprio nel carattere radicale di questo dubbio si intravede una prima certezza. Io posso ammettere di ingannarmi o di essere ingannato in tutti i modi possibili, ma per ingannarmi o per essere ingannato io debbo esistere, cioè essere qualcosa e non nulla. La proposizione “io esisto” è dunque la sola assolutamente vera, perché il dubbio stesso la conferma; infatti può dubitare, e quindi pensare, solo chi esiste: cogito ergo sum. Insomma il dubbio ha portato Cartesio a ripiegare nell’interiorità dove è possibile trovare il fondamento incrollabile di ogni conoscenza: la realtà del pensiero, sia pure come attività dubitante, si pone al di sopra di ogni possibile dubbio. Posto che esista un genio maligno che mi inganna, io debbo in ogni caso esistere per essere ingannato. (CFR Il dubbio e il cogito – Il cogito e la regola dell’evidenza, pag 188-189. Inoltre, 6.1, 6.2, 6.3, 6.4, da pag 190 a pag 193)

La natura del cogito

La proposizione “io esisto” contiene evidentemente anche una prima indicazione su ciò che sono io che esisto. Non posso certo dire di esistere come corpo, giacché non so ancora nulla dell’esistenza dei corpi, intorno ai quali il mio dubbio permane. Pertanto io non esisto se non come cosa che dubita, cioè che pensa. In altre parole, la certezza del mio esistere concerne solo e tutte le determinazioni del mio pensiero: il dubitare, il capire, il concepire, l’affermare, il negare, il volere, il non volere, l’immaginare, il sentire… al contrario le cose pensate, immaginate, sentite ecc. possono, a quel che ne so, non essere reali; ma è reale certamente il mio pensare, il mio sentire ecc. La proposizione “io esisto” equivale dunque alla proposizione “io sono un soggetto pensante”: cioè spirito, intelletto o ragione. La mia esistenza di soggetto pensante è certa come non lo è l’esistenza di nessuna delle cose che penso. Può ben darsi che ciò che io percepisco (per esempio un pezzo di cera) non esista; ma è impossibile che non esista io che penso di percepire quell’oggetto. Su questa certezza originaria, che è nello stesso tempo verità necessaria, deve essere dunque fondata ogni altra conoscenza.

Il principio cartesiano ripete il movimento di pensiero che già era stato sviluppato da Agostino (si fallor, sum) e da Campanella; ma lo ripete nell’orizzonte di un altro problema. Non si tratta, come in Agostino, di stabilire la presenza trascendente della Verità (cioè di Dio) nell’interiorità dell’uomo; non si tratta neppure, come in Campanella, di stabilire la natura dell’anima senziente in quanto coscienza delle proprie modificazioni. Si tratta invece di trovare nell’esistenza del soggetto pensante, il cui essere è evidente a se stesso, il principio che garantisce la validità della conoscenza umana e l’efficacia dell’azione umana sul mondo. Non bisogna dimenticare che Cartesio ha elaborato la sua metafisica come fondamento e giustificazione della fisica: ha voluto cioè ritrovare nella stessa esistenza dell’uomo, in quanto io o ragione, la possibilità di una conoscenza che consenta all’uomo di dominare il mondo per i suoi bisogni.

Le discussioni intorno al cogito

I contemporanei di Cartesio, colpiti dalla scoperta del cogito, o per lo meno dall’originale ripresa di tale concetto, lo discussero ampiamente.

Qualcuno accusò il ragionamento cartesiano di essere un “circolo vizioso”, affermando che, se il principio del cogito viene accettato perché evidente, la regola dell’evidenza risulta anteriore allo stesso cogito, come fondamento della sua evidenza, per cui la pretesa di giustificarla in virtù delcogito diventa illusoria. Cartesio risponde affermando che non è vero che il cogito risulta evidente perché conforme alla regola dell’evidenza, in quanto il cogito è la stessa autoevidenza esistenziale che il soggetto ha di se medesimo: il cogito è in se stesso chiaro e distinto. Esso non è certo perché rispetta i criteri della chiarezza e della distinzione, esso semmai li fornisce. In caso contrario essi sarebbero stati presupposti ancora una volta in modo dogmatico o stipulati con un accordo più o meno condiviso. Analogamente, all’accusa mossa da Gassendi, secondo cui il cogito sarebbe una forma di sillogismo abbreviato, del tipo “Tutto ciò che pensa esiste. Io penso, dunque esisto”, e quindi risulterebbe infondato, in quanto il principio “Tutto ciò che pensa esiste” cade preliminarmente, come tutto il resto, con l’ipotesi del genio maligno, Cartesio risponde che ilcogito non è un ragionamento, ma un’intuizione immediata della mente. Nessuna dimostrazione potrebbe renderla più certa di quanto già non appaia.

Più insidiosa è l’osservazione di Hobbes, secondo il quale Cartesio avrebbe senz’altro ragione nel dire che l’io, in quanto pensa, esiste, ma avrebbe torto nel pretendere di pronunciarsi su come esso esista, definendolo «uno spirito, un’anima». In ciò Cartesio sarebbe simile a chi dicesse: «Io sto passeggiando, quindi sono una passeggiata». Infatti il quid, o la x, che pensa, la sostanza di quell’atto che è il pensiero, potrebbe essere benissimo il corpo o il cervello, ossia qualcosa di materiale. Cartesio replica affermando:

  1. che l’uomo non passeggia costantemente, però pensa sempre, per cui il pensiero, per lui, risulta essenziale;
  2. che il pensiero indica talvolta l’atto del pensiero, talvolta la facoltà del pensiero, talvolta la cosa o sostanza con cui si identifica tale facoltà. Pertanto, in quest’ultimo caso, si può legittimamente parlare di una sostanza pensante, la cui essenza è appunto costituita dal pensiero.
  3. Dio come giustificazione metafisica delle certezze umane

Il principio del cogito non mi rende sicuro se non della mia esistenza ed evidenza, ma lascia ancora aperta la questione delle altre esistenze ed evidenze, sulle quali continua a gravare l’ipotesi del genio maligno. Infatti, io sono un essere pensante che ha idee (intendendo per idea ogni oggetto del pensiero). Ora, io sono sicuro del fatto che tali idee esistano nel mio spirito, perché esse, come atti del pensiero, fanno parte di me come soggetto pensante. Non sono invece sicuro che a queste idee corrispondano realtà effettive fuori di me. Idee sono per me la terra, il cielo, gli astri e tutte le cose percepite dai sensi.

Queste idee esistono nel mio spirito, ma esistono anche le cose a esse corrispondenti, fuori di me?

Per rispondere a questa domanda, Cartesio divide tutte le idee in tre categorie:

  • quelle che mi sembrano essere innate in me (innate);
  • quelle che mi sembrano estranee o venute dal di fuori (avventizie);
  • quelle formate o trovate da me stesso (fattizie).

Alla prima classe di idee appartiene la capacità di pensare e di avere idee; alla seconda classe appartengono le idee delle cose naturali; alla terza classe, infine, le idee delle cose chimeriche o inventate. Per scoprire se a qualcuna di queste idee corrisponda una realtà esterna, non c’è altro da fare che chiedersi la possibile causa di esse. (CFR L’innatismo, pag 196-197).

L’idea di Dio e le prove dell’esistenza di Dio

Per quel che riguarda le idee che rappresentano altri uomini o cose naturali, esse non contengono nulla di così perfetto che non possa essere stato prodotto da me.

Per quel che riguarda l’idea di Dio, cioè di una sostanza infinita, eterna, onnisciente, onnipotente e creatrice, è invece difficile supporre che possa averla creata io stesso. Difatti io sono privo delle perfezioni che quell’idea rappresenta; e la causa di un’idea deve sempre avere almeno tanta perfezione quanta è quella che l’idea stessa rappresenta. La causa dell’idea di una sostanza infinita non posso essere io che sono una sostanza finita; questa causa dev’essere una sostanza infinita la quale, pertanto, deve essere ammessa come esistente. Questa è la prima prova dell’esistenza di Dio.

In secondo luogo, si può riconoscere l’esistenza di Dio partendo dal fatto che il mio io ha natura finita. lo sono finito e imperfetto, come è dimostrato dal fatto che dubito. Ma se fossi la causa di me stesso, mi sarei dato le perfezioni che concepisco e che sono appunto contenute nell’idea di Dio. È dunque evidente che non mi sono creato da me e che non può avermi creato che Dio, il quale mi ha creato finito pur dandomi l’idea dell’infinito.

A queste due prove Cartesio ne aggiunge una terza, che è la tradizionale prova antologica. Non è possibile concepire Dio come Essere sovranamente perfetto senza ammettere la sua esistenza, perché l’esistenza è una delle sue perfezioni necessarie. Come non si può concepire un triangolo che non abbia gli angoli interni uguali a due retti, così non si può concepire un essere perfetto che non esista. D’altronde l’esistenza di Dio è richiesta, secondo Cartesio, dalla stessa durata della mia esistenza, giacché tutto ciò che non ha la causa in se stesso cesserebbe di esistere qualora la sua causa non continuasse incessantemente a crearlo. La creazione è continua. (CFR Dio esiste e non mi inganna, pag 194 e 195; inoltre, Ulteriore prova dell’esistenza di Dio, pag 197).

Dio come garante dell’evidenza e la possibilità dell’errore

Una volta riconosciuta l’esistenza di Dio, il criterio dell’evidenza trova la sua ultima garanzia. Dio, essendo perfetto, non può ingannarmi; la facoltà di giudizio, che ho ricevuta da Lui, non può essere tale da indurmi in errore, se viene adoperata rettamente. Tutto ciò che appare chiaro ed evidente deve essere vero, perché Dio lo garantisce come tale. Dio è dunque, per Cartesio, quel terzo termine che ci permette di passare dalla certezza del nostro io alla certezza delle altre evidenze, secondo lo schema di fondo della sua metafisica:

Ma com’è allora possibile, l’errore? Esso dipende, secondo Cartesio, dal concorso di due cause, cioè dall’intelletto e dalla volontà. L’intelletto umano è limitato e noi possiamo infatti pensare un intelletto assai più esteso e addirittura infinito, quello di Dio. La volontà umana invece è libera e quindi assai più estesa dell’intelletto. Essa consiste nella possibilità di fare o non fare, di affermare o negare, di ricercare o fuggire, e può fare queste scelte sia rispetto alle cose che l’intelletto presenta in modo chiaro e distinto, sia rispetto a quelle che non hanno chiarezza e distinzione sufficienti. In questa possibilità di affermare o di negare ciò che l’intelletto non riesce a percepire chiaramente risiede la possibilità dell’errore.

L’errore non ci sarebbe mai, se io affermassi o negassi, cioè dessi il mio giudizio, solo intorno a ciò che l’intelletto mi fa concepire con sufficiente chiarezza e se mi astenessi dal dare il mio giudizio intorno a ciò che non è abbastanza chiaro. Ma poiché la mia volontà, che è libera, può venir meno a questa regola e indurmi a pronunciarmi su ciò che non è evidente abbastanza, nasce la possibilità dell’errore. lo potrò indovinare per mero caso; e anche così avrò usato male della mia libertà. Ma potrò anche affermare quello che non è vero e in tal caso sarò senz’altro caduto in errore. L’errore dipende dunque unicamente dal libero arbitrio che Dio ha dato all’uomo e si può evitare soltanto attenendosi alle regole del metodo e in primo luogo a quella dell’evidenza.

L’evidenza, avendo ormai ottenuto ogni garanzia (in quanto è risultata fondata sulla stessa veridicità di Dio), consente di eliminare il dubbio che è stato avanzato in principio sulla realtà delle cose corporee. Io ho l’idea di cose corporee che esistono fuori di me e che agiscono sui miei sensi. Quest’idea, essendo evidente, non può essere ingannevole: devono dunque esistere cose corporee corrispondenti alle idee che noi ne abbiamo. (CFR Perché esiste l’errore, pag 195).

Le critiche alla concezione cartesiana di Dio

Anche il discorso cartesiano su Dio è stato tradizionalmente accusato di costituire un “circolo vizioso”, perché il filosofo pretenderebbe di dimostrare Dio per mezzo dell’evidenza e l’evidenza per mezzo di Dio. Corrispondentemente, Cartesio è stato tacciato di “presunzione metafisica”, poiché egli invoca Dio per giustificare ciò che, in fondo, ritiene già vero prima e indipendentemente da Dio: il criterio generale dell’evidenza e le evidenze particolari. Ma in tal modo la funzione di Dio all’interno del conoscere finisce per apparire inutile, o pleonastica, poiché serve a giustificare delle evidenze che in realtà vengono preliminarmente ammesse proprio in quanto evidenti. Ora, per giustificare ad esempio che il sole splende o che l’acqua bolle a cento gradi, è proprio necessario ricorrere a Dio? E siccome Cartesio, difendendosi dalle accuse dei suoi critici, afferma talvolta che Dio, più che il garante della verità in se stessa, è il garante della permanenza della verità, il suo richiamo alla divinità risulta anche epistemologicamente pericoloso, poiché rischia di dogmatizzare e eternizzare le verità umane, andando contro la metodologia della rivoluzione scientifica, la quale afferma che una cosa è vera in quanto e finché non risulta smentita, e non perché è garantita metafisicamente e “per sempre” da qualche principio superiore.

Per quanto riguarda le “prove” di Dio fornite dal filosofo francese, esse sono apparse, per lo più, abbastanza fragili. Ad esempio, le prime due si fondano sul presupposto, tutt’altro che scontato, della non-derivabilità empirica del concetto di perfezione assoluta. La terza prova è sostanzialmente una ripresa del tradizionale argomento ontologico, il quale, come si è già visto, non sembra possedere quel carattere di “verità incontrovertibile” che Cartesio vorrebbe attribuirgli.(CFR L’accusa di circolo vizioso, pag 198).

  1. Il dualismo cartesiano

Accanto alla sostanza pensante, che costituisce l’io, si deve ammettere, come si è visto, la sostanza corporea, divisibile in parti, quindi estesa.

Tale sostanza estesa non possiede però tutte le qualità che noi percepiamo di essa. Cartesio fa sua la distinzione già stabilita da Galilei e che in realtà risale a Democrito. La grandezza, la figura, il movimento, la situazione, la durata, il numero (cioè tutte le determinazioni quantitative sono certamente qualità reali della sostanza estesa; ma il colore, il sapore, l’odore, il suono ecc. non esistono come tali nella realtà corporea e corrispondono in questa realtà a qualcosa che noi non conosciamo.

In tal modo, Cartesio ha spezzato la realtà in due zone distinte ed eterogenee:

  • da un lato la sostanza pensante (res cogitans), che è in estesa, consapevole e libera, da un lato;
  • dall’altro la sostanza estesa (res extensa), che è spaziale, inconsapevole e meccanicamente determinata.

Ma dopo aver tracciato questa divisione, Cartesio si trova di fronte al difficile problema di riunire le due sostanze, ovvero di spiegarne il rapporto scambievole, rendendo intelligibile, per quanto riguarda l’uomo, la relazione tra anima e corpo.

Cartesio pensa di risolvere la questione con la teoria della ghiandola pineale (l’odierna epìfisi), concepita come la sola parte del cervello che, non essendo doppia, può unificare le sensazioni che vengono dagli organi di senso, i quali sono tutti doppi.

Come vedremo, questa soluzione apparirà pseudofilosofica e pseudoscientifica ai pensatori successivi, che cercheranno di sciogliere il nodo del dualismo cartesiano in modo diverso. (CFRLa mente e il corpo, pag 198 e 199).

  1. Il mondo fisico e la geometria[1]

La fisica cartesiana, sulla base della rigorosa separazione tra sostanza pensante e sostanzaestesa, poté attuare finalmente la radicale eliminazione dei residui finalistici, antropomorfici,animistici, magici e astrologici che ancora infestavano la fisica agli inizi del Seicento.

Neppure Galileo seppe con altrettanta coerenza depurare la fisica dalle scorie del passato. E perciò appunto, sebbene i risultati di Cartesio nell’analisi dei singoli fenomeni fisici non potessero reggere il confronto con i successi conseguiti da Galileo, il meccanicismo cartesiano riuscì a incidere profondamente sulla formazione della mentalità scientifica dell’epoca, soprattutto in Francia, e il sistema elaborato dal filosofo, pur con le sue stravaganze, riscosse notevole successo, tanto da rivaleggiare per parecchi decenni con il sistema newtoniano. Nondimeno, l’interesse rivolto prevalentemente al problema metodologico e ai principi di carattere generale, congiunto al desiderio di elaborare un sistema fisico onnicomprensivo adatto a far da complemento alla metafisica, distoglieva solitamente Cartesio dall’indagine accurata dei fenomeni e induceva a sommarie generalizzazioni, che fornivano una visione gravemente riduttiva della complessità dei fenomeni naturali.

Meccanicismo significa, ovviamente, determinismo. Una spontaneità della natura o una sua intrinseca casualità non sono ammissibili, poiché i fenomeni si svolgono secondo quel principio di oggettiva necessità causale che, come abbiamo già visto, è uno dei temi qualificanti della rivoluzione scientifica.

Dobbiamo tuttavia aggiungere che, nel momento in cui la scienza fisica assume una struttura matematica, la necessità oggettiva si traduce inevitabilmente in una necessità logico-matematica, che ha il suo fondamento nelle leggi del pensiero; assunta, infatti, un’ipotesi, l’andamento di un fenomeno può essere dedotto matematicamente da quella. Noi siamo oggi consapevoli che la deduzione si limita a esplicitare ciò che è già implicito nell’ipotesi stessa, con tutto il margine di incertezza in essa contenuto, e non prescrive alla natura alcuna ulteriore legge del pensiero. Ma il successo del procedimento deduttivo generava l’illusione che l’evidenza soggettiva delle argomentazioni fosse di per sé garanzia della loro corrispondenza con la realtà esterna, indipendentemente da una conferma sperimentale.

Sicché Cartesio, indotto da tale illusione, tende a operare anche nella fisica, oltre che nella metafisica, quel salto dall’ordine logico all’ordine ontologico che costituisce da sempre l’aspirazione ultima del razionalismo. Egli di fatto procede non di rado guidato dalla convinzione di poter cavare dalla propria testa le leggi che governano il mondo.

D’altronde non le sole leggi, ma l’esistenza stessa della res extensa trova fondamento per Cartesio nell’evidenza della nostra idea dello spazio. Su questa base è ovvio, come abbiamo già accennato, che dal mondo della nostra esperienza possiamo assumere come oggettive solo quelle proprietà che siano suscettibili di una trattazione geometrica, mentre le restanti proprietà che attribuiamo al mondo sono di natura puramente soggettiva. La geometria è perciò l’unica scienza fisica.

La geometria analitica

La Geometria è la più importante delle tre appendici del Discorso sul metodo e costituisce in qualche modo l’atto di nascita della geometria analitica, la quale si colloca storicamente come punto di incontro tra i progressi dell’algebra realizzati nel corso del Cinquecento e ilcontemporaneo lento recupero della geometria classica.

Cartesio ha chiara consapevolezza dell’unità delle diverse scienze matematiche, le quali, «sebbene i loro oggetti siano differenti, tuttavia si accordano tutte, perché negli oggetti esse considerano soltanto i diversi rapporti o proporzioni». Ritiene pertanto possibile unificare la geometria degli antichi con l’algebra dei moderni; ma questa operazione richiede una revisione di ambedue le scienze.

  • La geometria degli antichi, malgrado i suoi incontestabili successi, è inficiata dal suo

procedere episodico, che costringe per ogni costruzione a ricercare una dimostrazione ad hoc;essa, infatti, rimanendo ancorata a un’immediata considerazione dei contenuti intuitivi, non riesce a cogliere i rapporti nella loro universalità e a sollevarsi al livello di generalità necessario a un’impostazione sistematica della scienza.

  • D’altro canto, anche la nuova scienza algebrica appare a Cartesio “un’arte confusa e oscura”, sia per l’uso di simboli inadeguati, dei quali talora non si intende appieno il significato, sia per il rapporto di sudditanza che la lega alla geometria.

Pertanto Cartesio riordina sistematicamente la simbologia algebrica (che risponde ormai quasi puntualmente a quella odierna) e abbandona l’immediata interpretazione geometrica dei procedimenti algebrici. L’algebra, riorganizzata così in un linguaggio autonomo, diviene idonea a riprodurre entro di sé in termini puramente formali la geometria, la quale a sua volta si offre come strumento di chiarificazione intuitiva dei procedimenti dell’algebra, quasi un’algebra applicata. Il numero e la forma divengono in tal modo traducibili l’uno nell’altra.

L’operazione, ormai ovvia per noi, richiede soltanto l’assunzione di un’unità di misura che consenta di interpretare un numero come una distanza e di una coppia di linee fondamentali, che oggi chiamiamo appunto “assi cartesiani”, quale sistema di riferimento. Ciò posto, punti, rette e curve possono essere individuati univocamente sul piano, in relazione agli assi, attraverso procedimenti algebrici.

La fisica

Il mondo, come si è detto, si identifica con l’estensione e la fisica si riconduce perciò integralmente alla geometria, né è di ostacolo a tale riduzione l’esistenza del moto, giacché il tempo può assumere agevolmente i connotati di una dimensione geometrica. Dopo questa premessa, nell’accostarsi alle opere di fisica di Cartesio, sconcerta, per verità, constatare un’assenza quasi totale della matematica. Non è una contraddizione; a Cartesio interessa soltanto fornire della realtà fisica un’interpretazione che renda possibile la trattazione matematica, senza che con questo egli si senta obbligato a svolgerIa esplicitamente.

Di fatto la fisica cartesiana pretende di ricondurre tutta l’infinita varietà dei fenomeni del mondo fisico ai due soli ingredienti dell’estensione e del moto. L’una e l’altro hanno origine da Dio, al quale si deve non solo la creazione della res extensa, ma anche il conferimento a essa di una certa determinata quantità di moto, indistruttibile non meno della materia: due principi fondamentali di conservazione, del moto e della materia, sono immediatamente deducibili dall’immutabilità di Dio, dalla quale può derivarsi l’immutabilità di quanto egli opera. Altri interventi di Dio nel mondo, oltre al primo atto di creazione della materia e al primo impulso, non sono richiesti. Al Dio di Cartesio, come osserverà Pascal, basta aver dato il primo calcio al mondo; il resto va da sé.

L’identificazione della materia con l’estensione comporta alcune conseguenze di grande rilievo:

  • lo spazio euclideo è infinito e pertanto infinita è anche la sostanza estesa;
  • lo spazio geometrico è inoltre infinitamente divisibile, la materia perciò non può essere costituita di atomi;
  • lo spazio è continuo, non ammette interruzioni, buchi, fenditure, di conseguenza non èconcepibile il vuoto; l’estensione, d’altronde, è l’attributo di una sostanza. e pertanto non può sussistere senza una sostanza cui inerire;
  • infine le qualità che attribuiamo alla materia in addizione all’estensione sono puramente soggettive, perché lo spazio è qualitativamente indifferenziato.

L’unico motore della grande macchina del mondo è costituito dall’originaria quantità di moto, che può distribuirsi in modi differenti tra i corpi attraverso gli urti. Il che significa che viene bandita ogni forza, attrattiva o repulsiva, e in particolare quelle forze che debbono manifestarsi a distanza: forze elettriche, magnetiche, gravitazionali, o di qualsivoglia altra natura. Non era, d’altronde, del tutto ingiustificato questo ripudio delle forze esplicantisi a distanza, che richiamavano il finalismo aristotelico, l’astrologia, l’animismo.

Come può, infatti, un corpo esercitare un’azione là dove non è? Galileo stesso le aveva in sospetto, al punto da respingere come farneticazione astrologica l’antica tesi che riconduceva il fenomeno delle maree all’influenza della luna.

Due sole leggi dominano l’universo fisico cartesiano: il principio di inerzia (che in Cartesio, pur diluito in due leggi distinte, trova finalmente una formulazione adeguata), e il principio della conservazione della quantità di moto.

La riduzione della fisica a geometria si scontra, a dire il vero, con difficoltà insormontabili ove si disponga dei soli strumenti matematici di cui disponeva Cartesio. Entro lo spazio euclideo perfettamente omogeneo non si riesce, infatti, a immaginare qualcosa che possa corrispondere a ciò che chiamiamo movimento. Secondo Cartesio è invece pensabile che frammenti di spazio si muovano rispetto ad altri frammenti di spazio, sebbene non si comprenda come il moto possa essere rilevato, se lo spazio è uniforme. Tuttavia l’aspetto meno convincente della teoria si coglie nel fatto che quel moto, poco chiaro proprio a causa dell’assoluta uniformità del tutto, divenga stranamente esso stesso origine delle disomogeneità presenti nella res extensa, che alla nostra percezione si manifesta come costituita di entità solide, o liquide, o areiformi, o infine in quella forma che interpretiamo come spazio vuoto. Ebbene, i differenti aspetti che presenta ai nostri sensi la res extensa dipendono esclusivamente dalle diverse condizioni inerziali dei vari frammenti di estensione. Coerenza e durezza di un corpo solido, ad esempio, sono soltanto l’effetto della comune condizione inerziale delle parti del corpo stesso, nel senso che non vi sono entro di esso moti relativi di alcune parti di estensione rispetto ad altre (condizione condivisa più o meno integralmente a seconda della maggiore o minor durezza del corpo).

Ovviamente Cartesio, avendo ripudiato ogni tipo di forza, non può fare appello a una coesione attiva delle parti di un corpo per spiegare la sua solidità. La materia sottile (o etere), che riempie tutto ciò che impropriamente chiamiamo vuoto, è costituita invece di corpuscoli, cioè di frammenti minutissimi di estensione, privi di ogni coerenza perché soggetti ciascuno a una differente condizione inerziale.

Sebbene il moto inerziale sia rettilineo, di fatto l’assenza del vuoto finisce inevitabilmente col produrre il chiudersi del moto in un circolo. Quando un corpo, infatti, si muove attraverso la materia sottile, è necessario che la materia sottile, che esso sposta davanti a sé, si richiuda sulla sua scia. Il che porta al costituirsi di un complesso sistema di vortici, che assumono una funzione fondamentale nella fisica cartesiana.

Da un vortice è avvolta la Terra, come pure ciascun corpo celeste. Ma i vortici che avvolgono la Terra e i singoli pianeti ruotano a loro volta entro un vortice più ampio, da cui è avvolto il sole. Attraverso questo modello puramente meccanico Cartesio si lusinga di poter spiegare la gravità e il moto di rivoluzione dei pianeti senza far ricorso alle aborrite forze a distanza. Infatti la materia sottile in moto vorticoso spingerebbe verso il suolo terrestre i gravi e analogamente manterrebbe la Terra e i pianeti in orbita intorno al sole.

La teoria dei vortici, non suffragata, ovviamente, da alcuna prova sperimentale, e priva di ogni elaborazione matematica, ebbe un certo successo e fronteggiò per qualche tempo la teoria della gravitazione newtoniana; non le si può negare, comunque, un merito fondamentale: prima di Newton, unificava terra e cielo, riconducendo a una medesima causa la caduta dei gravi e il moto orbitale dei pianeti.

L’implacabile riduzionismo cartesiano non risparmiava neppure il mondo della vita. Le funzioni vitali non posseggono infatti alcunché di specifico che le differenzi dai fenomeni di natura meccanica: un essere vivente è solo una macchina, un automa, funzionante anch’esso in virtù dell’inerzia e della conservazione della quantità di moto. Cartesio riteneva di trovare conferme alla propria interpretazione meccanicistica della vita non solo negli studi di anatomia sviluppatisi già dal Rinascimento, che evidenziavano la funzione meccanica dello scheletro e della muscolatura, ma anche nella scoperta recente della circolazione del sangue fatta da Harvey. Lo stesso corpo dell’uomo è una macchina, di cui la res cogitans si serve come di un proprio strumento; e, sebbene Cartesio si affanni a dichiarare che tra anima e corpo esiste un’intima connessione, più profonda di quella che esiste tra il pilota e la sua nave, talora si riceve proprio l’impressione che il legame sia di tal natura che con la morte l’anima debba abbandonare il corpo, non più funzionante, un po’ come un automobilista abbandona la sua macchina in panne. Ma la presenza di una res cogitans capace di agire sulla res extensa costituisce un ulteriore motivo di debolezza del sistema cartesiano.

Nell’insieme i contributi specifici di Cartesio ai progressi della scienza fisica non sono molto significativi; o almeno va detto che il loro apprezzamento risulta problematico, giacché il significato di alcuni principi di indubbia validità, come il principio d’inerzia e il principio di conservazione della quantità di moto, è alterato dal sistema entro cui i principi stessi sono inseriti. Ciò nonostante rimangono essenziali, nel processo di fondazione della fisica classica, il coerente richiamo all’esigenza di una razionalità matematica e la valorizzazione del modello meccanico. La visione meccanicistica, che pretende che la natura agisca sempre e soltanto secondo i procedimenti di cui facciamo uso nella costruzione delle macchine, appariva seducente in un’età in cui la scienza voleva essere in primo luogo uno strumento di dominio della natura; d’altronde i modelli meccanici continuarono ancora a lungo ad allettare gli scienziati, per altro mietendo successi in una molteplicità di campi, tanto nell’interpretazione di fenomeni fisici quanto nella progettazione di macchine.

  1. La filosofia pratica

La morale “provvisoria”

Nella terza parte del Discorso sul metodo, prima di iniziare con il dubbio l’analisi metafisica, Cartesio aveva stabilito alcune regole di morale provvisoria, allo scopo di evitare di rimanere «irresoluto nelle sue azioni mentre la ragione lo obbligava ad esserlo nei suoi giudizi».

La prima regola provvisoria era di obbedire alle leggi e ai costumi del paese, conservando la religione tradizionale e regolandosi in tutto secondo le opinioni più moderate e più lontane dagli eccessi. Con questa regola egli rinunciava preliminarmente a ogni estensione della sua critica nel dominio della morale, della religione e della politica. E in realtà questa regola esprime un aspetto, non provvisorio ma definitivo, della personalità di Cartesio, caratterizzata dal rispetto verso la tradizione religiosa e politica.

«Ho la religione del mio re», «Ho la religione della mia nutrice», egli rispose al ministro protestante Revius che l’interrogava in proposito. In realtà egli distingueva due domini diversi: l’uso della vita e la contemplazione della verità. Nel primo, la volontà ha l’obbligo di decidersi senza attendere l’evidenza; nel secondo ha l’obbligo di non decidere finché l’evidenza non è stata raggiunta. Nel dominio della contemplazione l’uomo non può contentarsi che della verità evidente; nel dominio dell’azione l’uomo può contentarsi della probabilità. La prima regola della morale provvisoria ha dunque per Cartesio, entro certi limiti, un valore permanente e definitivo.

La seconda regola era di essere il più fermo e risoluto possibile nell’azione e di seguire con costanza anche l’opinione più dubbiosa, una volta che fosse stata accettata. Anche questa regola è suggerita dalle necessità della vita che obbligano molte volte ad agire in mancanza di elementi sicuri e definitivi. Ma evidentemente la regola perde ogni carattere provvisorio se la ragione è già entrata in possesso del suo metodo. In tal caso, infatti, essa implica che «vi sia una ferma e costante risoluzione di seguire tutto ciò che la ragione consiglia senza che ci si lasci deviare dalle passioni o dagli appetiti» (Lettera a Elisabetta, 4 agosto 1645).

La terza regola era di cercare di vincere piuttosto se stessi che la fortuna e di cambiare i propri desideri più che l’ordine del mondo. Cartesio sostenne costantemente che nulla è del tutto in nostro potere tranne i nostri pensieri, che dipendono solo dal nostro libero arbitrio; e ripose il merito e la dignità dell’uomo nell’uso che egli sa fare delle sue facoltà, uso che lo rende simile a Dio. Questa regola rimase il caposaldo fondamentale della morale di Cartesio. Essa esprime, nella formula tradizionale del precetto stoico, lo spirito del cartesianesimo, il quale esige che l’uomo si lasci condurre unicamente dalla propria ragione, e delinea l’ideale stesso della morale cartesiana, quello della saggezza.

Lo studio delle passioni

Alla sua morale “provvisoria” Cartesio, tutto preso dai prevalenti interessi metafisici e scientifici, non farà mai seguire una morale “definitiva”. Tuttavia, come si è accennato, scriverà Le passioni dell’anima, che contengono anche spunti di etica.

In questo scritto, Cartesio distingue nell’anima azioni e affezioni: le azioni dipendono dalla volontà, le affezioni sono involontarie e sono costituite da percezioni, sentimenti o emozioni causati nell’anima dagli spiriti vitali, cioè dalle forze meccaniche che agiscono nel corpo.

Evidentemente la forza dell’anima consiste nel vincere le emozioni e nell’arrestare i movimenti del corpo che le accompagnano mentre la sua debolezza consiste nel lasciarsi dominare dalle emozioni, le quali, essendo spesso contrarie tra loro, sollecitano l’anima di qua e di là, portandola a combattere contro se stessa e riducendola nello stato più deplorevole. Ciò d’altronde non vuol dire che le emozioni siano essenzialmente nocive. Esse si rapportano tutte al corpo e sono date all’anima in quanto è congiunta con esso; sicché hanno la funzione naturale di incitare l’anima ad acconsentire e a contribuire alle azioni che servono a conservare il corpo e a renderlo più perfetto.

In questo senso la tristezza e la gioia sono le emozioni fondamentali. Dalla prima infatti l’anima è avvertita delle cose che nuocciono al corpo e così prova l’odio verso ciò che le causa tristezza e il desiderio di liberarsene. Dalla gioia invece l’anima è avvertita delle cose utili al corpo e così prova amore verso di esse e il desiderio di acquistarle o di conservarle.

Alle emozioni va congiunto tuttavia uno stato di servitù da cui l’uomo deve tendere a liberarsi. Esse fanno quasi sempre apparire il bene e il male, che rappresentano assai più grandi e importanti di ciò che sono, però ci inducono a fuggire l’uno e a cercare l’altro con più ardore di quanto convenga. L’uomo deve lasciarsi guidare, per quanto è possibile, non da esse, ma dall’esperienza e dalla ragione: solo così potrà distinguere nel loro giusto valore il bene e il male ed evitare gli eccessi. In questo dominio sulle emozioni consiste la saggezza; e la saggezza si ottiene estendendo il dominio del pensiero chiaro e distinto e separando, per quanto è possibile, questo dominio dai movimenti del sangue e degli spiriti vitali dai quali dipendono le emozioni e con i quali abitualmente è congiunto.

Proprio in questo progressivo dominio della ragione, che restituisce all’uomo l’uso intero del libero arbitrio e lo rende padrone della sua volontà, è il tratto saliente della morale cartesiana.

  1. Cartesio nella filosofia moderna

Apprezzato subito per la sua statura intellettuale ed elevato ben presto a simbolo della modernità, Cartesio ha ispirato le filosofie più disparate. Tanto più che il suo essere una sorta di filosofo «mascherato» e ambivalente, come egli stesso sembra suggerire con l’espressione «larvatus prodeo» (procedo mascherato), ha fatto sì che del suo pensiero si siano sottolineati aspetti antitetici tra loro e che egli abbia potuto essere considerato, di volta in volta, comefilosofo della coscienza o come filosofo della materia, come filosofo della libertà o comefilosofo del meccanicismo, come filosofo cristiano o come filosofo che pone le basidell’ateismo, come filosofo conservatore o come filosofo rivoluzionario.

Al di là di queste divergenti interpretazioni (alcune delle quali si contendono tuttora il campo), il razionalismo di Cartesio ha rappresentato una pietra miliare della filosofia moderna, di cui egli è solitamente considerato il fondatore.

Cartesio è innanzitutto il più importante protagonista della filosofia del Seicento. A lui si rifanno la metafisica religiosa di Malebranche come il panteismo naturalistico di Spinoza, il filosofare cristiano di Pascal come il pensiero “emancipato” dei libertini, il dinamismo monadologico di Leibniz come il meccanicismo materialistico di Hobbes ecc. Per questi e altri autori Cartesio si presenta infatti come un interlocutore obbligato e, al di là delle critiche, in alcuni casi particolarmente violente, ciascuno di essi riconosce un qualche debito nei confronti dell’innovato re della problematica filosofica, ritenuto, se non altro, un “idolo polemico” con cui risulta indispensabile fare i conti. Pertanto, in alcuni casi si può parlare di un vero e proprio “anticartesianesimo nel cartesianesimo”.

L’autore del Discorso sul metodo è presente anche agli empiristi del Sei-Settecento, che, a cominciare da Locke, innestano il cartesianesimo sulla tradizione più tipica del pensiero inglese, elaborando sistemi che rivelano una forte influenza del pensatore francese, sia dal punto di vista concettuale, sia da quello terminologico. L’uso cartesiano del termine “idea”, intesa come ogni oggetto del pensiero in generale, e la relativa problematica del passaggio dall’idea alla realtà, ad esempio, è di tale rilevanza, negli empiristi, da condizionare gli esiti stessi della filosofia di Locke, dell’immaterialismo di Berkeley e dello scetticismo di Hume.

Cartesio ha un ruolo fondamentale anche all’interno dell’llluminismo, che da un lato vede in lui un tipico esponente dello “spirito di sistema”, ma dall’altro ne apprezza l’impronta razionalistica, il dubbio metodico, il rifiuto del principio di autorità ecc. Inoltre il cosiddetto “cartesianesimo di sinistra”, di tendenza radicalmente meccanicistica, rappresenta una componente di base delle correnti più estremistiche del materialismo francese.

Nel kantismo, Cartesio diviene il rappresentante di un idealismo problematico che rischia di chiudere l’io nel cerchio delle sue idee, aprendo le porte a Berkeley. Nello stesso tempo egli si configura come il teorico del cogito, che accompagna tutte le nostre rappresentazioni, e al cui interno va cercata l’origine della conoscenza.

Con l’idealismo tedesco Cartesio è celebrato come filosofo della soggettività, tramite il quale prende avvio il passaggio dalla metafisica dell’essere o dell’oggetto alla metafisica della mente o del pensiero, e per il quale si intuisce, grazie al cogito, l’identità tra essere e pensiero. Cartesio è anche uno degli ispiratori del filone spiritualistico della filosofia ottocentesca, in tutta la gamma variopinta delle sue forme. Con lui, visto come l’antesignano della svolta soggettivistica della filosofia moderna, ritengono di dover fare i conti autori italiani come Galluppi, Rosmini, Gioberti.

Nel Novecento, in particolare nella prima metà del secolo, l’influenza di Cartesio continua a essere notevole, soprattutto nell’ambito della cultura francese, che dal pensiero cartesiano ha tratto una tipica impostazione dualistica e coscienzialistica, cioè fondata sulla contrapposizione tra l’ “io” e le “cose”. Il caso dell’esistenzialismo coscienzialistico del primo Sartre risulta, a questo proposito, uno dei più emblematici. Ancora nel 1946, infatti, polemizzando con i marxisti, Sartre dichiarava: «Non vi può essere, all’inizio, altra verità che questa: io penso, dunque sono. Questa è la verità assoluta della coscienza che raggiunge se stessa. Ogni teoria che considera l’uomo fuori dal momento nel quale egli raggiunge se stesso è, anzitutto, una teoria che sopprime la verità, perché, fuori del cogito cartesiano, tutti gli oggetti sono soltanto probabili»[2].

La ripresa più esplicita e storicamente importante di Cartesio si trova, tuttavia, nella fenomenologia, che, nelle sue interpretazioni più coscienzialistiche e idealistiche, si è apertamente rifatta al filosofo del cogito. Non per nulla, Husserl intitola uno dei suoi capolavoriMeditazioni cartesiane, dando modo di parlare, a proposito del suo sistema, di «neocartesianesimo husserliano».

Hegel: dalla Ragione al Sapere Assoluto

Con l’ennesimo capovolgimento dialettico, che parte dalla concezione di un Dio radicalmente opposto all’uomo, si arriva attraverso l’esperienza mistica alla concezione di un’unità inscindibile tra uomo e Dio: l’uomo si è assimilato a Dio e ha acquisito la certezza di essere ogni realtà, ovvero ha superato il dualismo soggetto/oggetto. Infatti, solo chi ha sperimentato l’impotenza, lo svuotamento, la separazione può superare questa condizione e giungere alla consapevolezza che nulla esiste all’esterno di se stesso. È questa la posizione propria dell’idealismo, che Hegel intende non come una filosofia particolare ma come una visione del mondo. L’essenza del reale, che finora la coscienza pensante aveva cercato in qualcosa di altro-da-sè (mondo esterno, forze o essenze misteriose), le si rivela ora come identica a lei: è la razionalità del reale. Si chiude così la seconda tappa (autocoscienza) della Fenomenologia e si apre la terza: la ragione.

Nella figura della ragione, la coscienza si trova per la prima volta conciliata con il mondo, si rende conto che la realtà, nei suoi vari aspetti, è pensiero. Mistica e ragione sono pertanto due passi contigui e la ragione appare come il momento di unità e di conciliazione. Hegel definisce la ragione come certezza di essere ogni realtà, certezza che è frutto dell’unità di pensare e di essere. Da notare che Hegel usa l’espressione certezza di essere ogni realtà e non sapere di essere ogni realtà, poiché se fosse un sapere sarebbe già il punto di arrivo. “Certezza”, invece, è il punto di partenza, è la dichiarazione generale che il soggetto ha acquisito consapevolezza di essere ogni realtà: dopo tale dichiarazione, spetta alla ragione cercare se stessa nella realtà, di verificare questa certezza, quasi come se sapesse ciò che essa è ma dovesse cercare di capire il come e il perché. Si tratterà pertanto di una ricerca di se stessa che la ragione conduce nella realtà attraverso vai tentativi rappresentati da altrettante tappe dialettiche. Queste tappe ripetono, ad un livello più alto (perchè ora la Coscienza come Ragione sa di essere unità di pensiero e di essere), in forma di spirale ascendente, i tre momenti precedentemente esaminati. Il passaggio da mistica a ragione si è realizzato storicamente quando dal Medioevo si è passati al Rinascimento. Nel momento della Ragione si individuano tre tappe.

La prima tappa è costituita dalla scienza moderna ed è definita RAGIONE CHE OSSERVA LA NATURA o Ragione osservativa. È questa la fase del naturalismo del Rinascimento e dell’empirismo, fasi storiche in cui l’uomo, dall’osservazione dei dati empirici e dei risultati degli esperimenti, attraverso la classificazione e l’astrazione, ricava i concetti e le leggi che costituiscono la scienza. Anche a proposito dell’intelletto (nella tappa della coscienza) si parlava di scienza ma là era una tappa gnoseologica, qui è una tappa storica. Hegel sembra tornare al punto di partenza, ma in realtà è lo stesso punto di partenza visto a livelli sempre più alti. La Ragione osservativa (in sostanza, la scienza moderna, sperimentale) è la ragione che “osserva” la natura con la certezza di trovarvi una razionalità omogenea alla sua: c’è consapevolezza fin da principio che il mondo è penetrabile dalla ragione, è razionale. La Ragione crede di cercare la natura sensibile delle cose ma in realtà cerca se stessa nella natura, cerca di riconoscersi nella realtà oggettiva che le sta di fronte. Hegel scrive che la ragione cerca il suo altro, sapendo che in ciò essa non possiederà nient’altro che se stessa; essa cerca soltanto la sua propria infinità. Scopre quindi che le leggi immanenti alla natura altro non sono se non leggi della ragione stessa. Quindi la scienza si inganna di trovare, di scoprire un ordine nelle cose; essa è invece costruzione di un ordine razionale propriamente umano. Qui è in gioco il consueto rapporto idealistico tra soggetto e oggetto, risolto tutto a favore del primo termine. L’osservazione della natura, che parte dalla semplice descrizione, si approfondisce con la ricerca della legge e con l’esperimento, finisce per incontrare grandi difficoltà quando tenta di comprendere la realtà organica e il finalismo della natura. Ciò la induce a rivolgersi non più al mondo oggettivo ma al soggetto e a studiarne le leggi logiche e psicologiche che guiderebbero il pensiero nelle sue operazioni.  Si passa quindi allo studio della coscienza con la psicologia. Questa però si mostra incapace di indagare le leggi del pensiero: in particolare non riesce a conciliare la molteplicità delle facoltà dell’animo con l’unità dell’autocoscienza. La Ragione tuttavia non demorde: essendo convinta che esista una precisa corrispondenza tra i fenomeni della natura e le leggi dell’intelligenza, si mette a cercare le prove di tale corrispondenza e crede di trovarle in due sedicenti scienze molto in voga a quel tempo: la fisiognomica di J. K. Lavater (1741-1801), che aveva la pretesa di determinare il carattere dell’individuo attraverso i tratti della sua fisionomia, e la frenologia di F. J. Gall (1758-1828), che pretendeva di conoscere il carattere dalla forma e dalle protuberanze del cranio; in questa ricerca esasperata di sé nella frenologia, la ragione osservativa giunge a proclamare che l’essere dello spirito è un osso. Hegel rifiuta le leggi di queste due scienze in quanto si fondano su una corrispondenza rigorosa tra interno ed esterno. Tuttavia la ragione si avvede che per ritrovarsi nella realtà non può limitarsi a osservarla e conoscerla: essa deve agire! Si abbandona l’ambito della conoscenza e ci si rivolge alla sfera pratica della ragione.

Se il primo momento era puramente oggettivo, in quanto la ragione ricercava oggettivamente se stessa nella realtà, la seconda tappa, quella della RAGIONE CHE AGISCE o Ragione attiva, presenta invece un capovolgimento dialettico: dall’oggettività si passa alla soggettività, ovvero al momento dell’azione individuale, cioè alla sfera della morale. La Ragione che agisce ripete a più alto livello (cioè a livello di certezza di essere ogni cosa) il momento dell’autocoscienza: la coscienza non vuole cercarsi, ma vuole produrre se stessa, vuole imporre la ragione alla realtà (in ultima istanza la soggettività all’oggettività) in quanto l’unità di Io e mondo non è qualcosa di già dato e contemplabile ma qualcosa da realizzare. L’itinerario della Ragione attiva consiste nell’iniziare a realizzarsi, dapprima come individuo, per elevarsi al fine, all’universale, superando i limiti dell’individualità e raggiungendo la superiore unione spirituale degli individui. A tal proposito Hegel, per questo momento che definisce “individualità”, scorge in tre figure e personaggi del suo tempo i diversi tentativi possibili che la ragione compie per imporsi alla realtà:

  1. la prima figura è quella denominata il piacere e la necessità, che è propria dell’individuo che, deluso dalla scienza e dalla ricerca naturalistica, ricerca la felicità nel piacere e nel godimento, come, ad esempio, nel primo Faust di Goethe: Faust stringe un patto col diavolo pur di ottenere il dominio sulla natura e quindi il proprio godimento e benessere. Ma tale piacere è illusorio: nella ricerca del piacere l’individuo, limitato e finito, si scontra con la necessità del destino che, incurante delle sue personali esigenze di felicità, lo travolge inesorabilmente.
  2. la seconda figura è quella della legge del cuore e il delirio della presunzione, che è propria dell’individuo che cerca di opporsi e regolare il corso ostile del mondo appellandosi alla legge del cuore, ai sentimenti. Qui il filosofo allude probabilmente al filone sentimentalistico che va da Rousseau ai Romantici e che egli non ama affatto e in questo si rivela come pensatore non-Romantico dell’età romantica. Per Hegel infatti i Romantici contrappongono ad una natura recalcitrante i propri valori, la loro legge del cuore, assumendo un atteggiamento di lamentazione e opposizione verso la realtà. In questa fase, l’individuo non si preoccupa del proprio piacere, come Faust, ma del benessere altrui e, dopo aver cercato di individuare e di abbattere i responsabili dei mali del mondo (preti fanatici, despoti corrotti), entra in conflitto con altri presunti portatori del vero progetto di miglioramento della realtà: infatti, inevitabilmente, ogni individualità vorrebbe che la sua “legge del cuore”, cioè questo generico e non ben precisato anelito al bene, valesse per tutti. Ma ciò non accade: l’individuo incontra la resistenza di altre individualità che, appellandosi alla legge del loro cuore, aspirano parimenti a imporre a tutti i propri principi, le proprie ricette per la salvezza dell’Umanità, ingaggiando una lotta contro il comportamento ordinario dell’uomo.
    Questi primi due tentativi sono destinati al fallimento poiché, incapaci di andare oltre i propositi astratti e le belle parole, in essi la ragione si esprime ancora a livello individuale, non giunge cioè a quel livello di universalità collettiva, concreta che solo le consente di identificarsi con tutto il mondo.
  3. Da questa contraddizione nasce la terza figura che è quella della virtù e il corso del mondo, che vede l’individuo contrapporre ai vari fanatismi di parte la virtù, ossia un agire in grado di procedere oltre l’immediatezza del sentimento e delle inclinazioni soggettive. Tuttavia, lo scarto tra la virtù, astrattamente vagheggiata come “dover essere”, e la realtà, il corso del mondo, che è governato dalla legge dell’effettualità, è troppo grande per cui i cavalieri della virtù, cioè quei personaggi che vorrebbero riformare il mondo, sono destinati a fallire: il bene vagheggiato non riesce a invertire il corso del mondo e ciò comporta la sconfitta del “cavaliere della virtù” e dei suoi donchisciotteschi propositi di moralizzazione dell’esistente. La virtù, insomma, pur superando la dimensione soggettiva, sentimentale e romantica del cuore, non può che infrangersi di fronte al mondo, il cui inesorabile e oggettivo corso non si lascia certo mutare da essa. Figure di questo momento sono don Chisciotte e Robespierre.

Alla tappa della Ragione osservativa e a quella della Ragione attiva, segue quella denominata l’INDIVIDUALITÀ CHE È A SE STESSA REALE IN SE STESSA E PER SE STESSA. Anche questa fase si realizza in tre momenti successivi:

  1. il regno animale dello spirito e l’inganno. Agli sforzi e alle ambizioni universalistiche della virtù succede l’atteggiamento dell’onesta dedizione ai propri compiti particolari (familiari, professionali, ecc.). Il termine “animale” indica proprio che la vita dello spirito viene risolta nella cura dei propri compiti o affari. L’“inganno” sta nel fatto che l’individuo tende a spacciare la propria morale individuale, che esprime in realtà un interesse particolaristico, per universale. Lukacs ha visto in questa figura la traduzione filosofica della mentalità, dell’individualismo borghese;
  2. la ragione legislatrice. In questa figura, l’autocoscienza, consapevole dell’inganno e dell’ipocrisia sopra descritto, cerca in se stessa delle leggi che valgano per tutti. È la figura corrispondente alla morale kantiana: la ragione, autonoma da ogni circostanza esterna, si fa principio di una legislazione universale. Tuttavia, tali leggi universali, in virtù della loro origine individuale, si esprimono inevitabilmente attraverso contenuti etici particolari, pur se presentati nella forma dell’universalità, come illustra l’esempio proposto da Hegel, partendo da una tesi kantiana: Ognuno ha il dovere di dire la verità. In questo dovere enunciato come incondizionato viene subito ammessa la condizione: se egli sa la verità. Quindi il comando suonerà ora così: Ognuno deve dire la verità, sempre a seconda della cognizione e della persuasione che egli ne ha. In questo modo, la pretesa di universalità della norma morale mostra immediatamente i propri limiti e la propria inadeguatezza in quanto non indica doveri precisi ma si limita a esprimere una generica esigenza morale;
  3. la ragione esaminatrice o critica delle leggi. Le contraddizioni di cui sopra, spingono la Ragione a prendere consapevolezza della propria incapacità di prescrivere norme precise e ad accontentarsi di farsi “ragione esaminatrice delle leggi” effettivamente esistenti, per verificarne o meno l’universalità e la non contraddittorietà. Tuttavia, l’autocoscienza, sottomettendo le leggi al proprio esame, si pone al di sopra di esse, in base a determinazioni individuali scambiate per universali. Così facendo si riduce, simultaneamente, l’intrinseca validità e incondizionatezza delle leggi.

Con tutte queste figure, Hegel intende dire che, fin quando ci si pone dal punto di vista dell’individuo, si è inevitabilmente condannati a non raggiungere mai l’universale. Non più confinata nella sfera dell’individualità, la ragione diviene spirito che, nella fase sistematica del pensiero hegeliano, viene denominato “spirito oggettivo” o “eticità”, che si incarna nelle istituzioni politiche di un popolo e soprattutto nello Stato. Quindi, per Hegel, la legge etica non è in noi o nella nostra ragione ma nella storia e nello Stato. La legge morale è allora il diritto, cioè la legge positiva, che non deriva dalla volontà del legislatore ma è l’incarnazione nel tempo della ragione universale: le leggi tramandate sono giuste in sè. A tal proposito, Hegel cita l’Antigone di Sofocle, per mostrare che essa non ha origine nella volontà individuale, poichè vive non oggi nè ieri, ma sempre. La Ragione, pertanto, non è legislatrice ma deve sottostare ad una norma esterna che oltrepassa la dimensione dell’individualità e che postula una realtà superiore a quella del singolo.

Come momento conclusivo, quindi, l’Autocoscienza, in questa fase, scopre che la sostanza etica non è altro se non ciò in cui essa è già immersa: è l’ethos della società e del popolo in cui vive.

La Ragione, pur essendo andata incontro a questa serie di sconfitte a causa dell’astrattezza e inadeguatezza dell’individualità, ha scoperto, tuttavia, l’imprescindibile ruolo della relazione tra individuo e comunità; la ragione transita allora dalla dimensione individuale e soggettiva della moralità alla dimensione sovra-individuale e collettiva dell’eticità. La Ragione universale si raggiunge solo quando si passa dalla morale kantiana e fichtiana, di carattere soggettivo, all’eticità, ossia quando si assume il punto di vista dello spirito che s’incarna nelle istituzioni giuridiche, storico-politiche e culturali di un popolo, ossia nello Stato. L’eticità è appunto la coscienza divenuta cosciente di se stessa realizzata nelle istituzioni storico-politiche di un popolo, inteso come una comunità culturalmente e linguisticamente omogenea, sorretta da valori e costumi condivisi. Nell’eticità non c’è contrapposizione tra dover essere ed essere come nella moralità kantiana. Nell’eticità dover essere e realtà coincidono perfettamente in quanto ciò che è reale è razionale e ciò che è razionale è reale. In conclusione, per Hegel l’individuo non si può realizzare da solo, ma si realizza solo riconoscendosi e ponendosi all’interno dello Stato. L’autocoscienza raggiunge la pace solo se è realizzata all’interno di uno Stato.

LO SPIRITO

Lo Spirito non si identifica con la legge morale facente capo all’individuo virtuoso, ma si concretizza nella cultura di un popolo. Lo “Spirito” (Geist), secondo la definizione di Hegel, è, in questa specifica accezione, la vita etica di un popolo: l’individuo che è un mondo. In tal modo il singolo può comprendere se stesso, trovare il senso della sua esperienza e della sua esistenza come parte di un tutto, vale a dire del suo popolo. La Ragione, insomma, si realizza concretamente nelle istituzioni storico-politiche di un popolo e soprattutto di uno Stato. In altre parole, la Ragione “reale” non è quella dell’individuo, ma quella dello spirito o dello Stato: non è quindi l’individuo a fondare la realtà storico-sociale, ma è vero il contrario.  Non capirebbe neppure una parola di ciò che dice Hegel chi non tenesse continuamente presente questa dimensione intersoggettiva, sociale, dello Spirito.

È chiaro, di conseguenza, che, per tutto il corso del restante itinerario fenomenologico, costituito dalle tre sezioni (Spirito, Religione, Sapere Assoluto, le “figure” non sono più modi in cui la Coscienza si rappresenta soggettivamente la realtà, ma diventano “figure di un mondo”, tappe del percorso effettivo della storia, che ci mostrano lo Spirito “alienato nel tempo” e che attraverso questa alienazione si realizza e si ritrova e, alla fine, si autoconosce. Le tappe fenomenologiche dello “Spirito” sono:

  1. lo Spirito in sé come eticità, che si esprime in maniera paradigmatica nel mondo greco e in quello romano. In Grecia, nella polis, abbiamo una fusione armonica tra l’individuo e la comunità, in quanto il singolo appare profondamente immerso nella vita del suo popolo. Era, però, ancora un’unità “immediata”, “naturale”, cioè quasi istintiva, non concettualmente consapevole, dunque di livello ancora inferiore: infatti, è presente ancora un elemento di scissione, che si evidenzia nel momento in cui la volontà del singolo e le leggi della comunità vengono a collidere. La figura più nota è quella rappresentato da Antigone, il cui desiderio di giustizia si scontra con le leggi dello Stato in un esito tragico. Il mondo romano, invece, riconosce l’individuo solamente nell’universalità astratta del diritto;
  2. lo Spirito che si estrania da sé. In questa fase l’eticità e le sue contraddizioni vengono superate nella cultura, che corrisponde alla fase in cui si consuma la frattura tra l’io e la società, ossia a una situazione di scissione e di alienazione che, già iniziata nel mondo antico e con l’impero cristiano, trova il proprio culmine nel mondo moderno. In questa fase, il superamento dell’immediatezza naturale, la spontaneità ingenua, avviene mettendo in azione l’intelletto, quale facoltà analitica. Ma, come negli scritti giovanili, l’intelletto è incapace di giungere alla totalità organica, perché è essenzialmente portata a frammentare il conoscere. Rifiuta giustamente le credenze abituali e consolidate, facendone oggetto anche di irrisione e sarcasmo, ma non sa costruire: lascia una coscienza disgregata. Tale atteggiamento raggiunge il suo culmine con l’illuminismo, un tipo di cultura corrosiva: tutto viene sottoposto al vaglio dell’intelletto, che emancipa dai lacci della fede e della superstizione, ingaggiando con loro una vera battaglia. Ma la libertà della Ragione ottenuta in questo modo è puramente negativa, anche se si crede assoluta perché tende a distruggere tutto, rivolgendosi, alla fine, contro se stessa. Manifestazione politica di questa vicenda intellettuale è la Rivoluzione francese, che volendo instaurare il regno della libertà ha invece dato inizio al Terrore, dove gli stessi esponenti della Rivoluzione finiscono per ghigliottinarsi a vicenda.
  3. lo Spirito che riacquista certezza di sé. Per uscire dalla furia devastatrice del Terrore, è necessaria una rivoluzione morale attraverso cui il singolo educhi la propria volontà all’universale. Con ciò Hegel non intende riproporre la legge morale kantiana, che egli considera astratta perché formale, ma un’effettiva unione tra morale individuale e lo spirito del popolo. Il terzo momento è quello di una riconquistata eticita, di una ritrovata armonia tra individuo e comunità. Anche qui lo Spirito attraversa delle figure, ancora imperfette, di “moralità astratta”:
  • l’anima bella romantica, che Hegel mutua da Schiller. Essa sembra rendere possibile la spontanea unificazione tra legge e impulso individuale. Essa definisce quella specie di soggettività che, rifugiandosi nella pura contemplazione e rinunciando quindi all’azione, si eleva all’universalità, ma è del tutto incapace di uscire da se stessa: proprio la sua purezza la isola dal contatto con il mondo perché essa non vuole “sporcarsi” nella realtà;
  • la religione, con la quale lo Spirito cerca di raggiungere l’unità con l’Assoluto: infatti, la religione ha come oggetto proprio l’Assoluto, che è rappresentato da Dio. Tuttavia, anche in questo stadio c’è qualcosa che impedisce la concettualizzazione totale: esso è dato da un elemento di esteriorità, cioè i simboli visivi con cui la religione si esprime. Questi sono condizionati da livello di cultura raggiunto dai diversi popoli. Infatti la religione può presentarsi come:
  1. religione naturale, che riconosce il sacro in elementi come la luce, le piante o gli animali: lo spirito divino appare allora come un artigiano che conosce se stesso attraverso oggetti (piramidi, obelischi);
  2. religione artistica, tipica del popolo greco e romano, che rappresenta il divino nelle opere d’arte;
  3. religione rivelata nel cristianesimo, la forma più alta di religione, che, grazie a concetti come la Trinità, la lotta tra il bene e il male e l’incarnazione (nei quali egli vede i concetti cardine della propria filosofia), riesce ad andare oltre l’immediatezza della rappresentazione sensibile, ma, nonostante la sua spiritualità, contiene pur sempre un elemento rappresentativo. Dio rimane ancora un oggetto, cioè qualcosa di esterno, per così dire, al mondo, dunque un’immagine inadeguata a esprimere l’identità dello Spirito con se stesso.

LA TAPPA CONCLUSIVA: IL SAPERE ASSOLUTO

Il superamento della forma di conoscenza “rappresentativa” propria della Religione porta, infine, al puro concetto e al Sapere Assoluto, ossia al sistema della scienza, che Hegel esporrà nella “Logica”, nella “Filosofia della Natura” e nella “Filosofia dello Spirito”, come vedremo. La scienza è quindi l’esito della storia della coscienza, è il Sapere Assoluto, cioè completamente libero, in cui lo Spirito coglie se stesso, diviene consapevole di se stesso, può finalmente pensarsi ed essere insieme soggetto e oggetto solo nell’Assoluto, nel concetto, cioè nella filosofia. La concettualità filosofica è “concreta” perché si è arricchita, ma anche purificata, passando attraverso tutte le esperienze precedenti. L’identità Io=Io è ora superata nell’uguaglianza e dell’uguaglianza e della differenza

Hegel: la Logica

La LOGICA è il primo momento del sapere filosofico che ha i suoi ulteriori momenti nella FILOSOFIA  DELLA NATURA e nella FILOSOFIA DELLO SPIRITO. Hegel considera la logica nel modo tradizionale, cioè come disciplina astratta e formale, volta ad assicurare la correttezza formale del ragionamento. La Logica è quindi la scienza dell’idea pura, dell’idea in sé: è il pensiero stesso nelle sue forme fondamentali e nello sviluppo delle sue articolazioni. L’espressione “inindica il carattere di indipendenza da tutto ciò che è altro:  la logica quindi non tratta dei contenuti del pensiero, ma considera il sapere nella sua forma assolutamente pura, cioè non mescolato con elementi empirici e soggettivi. Per Hegel la logica corrisponde ai pensieri di Dio prima della creazione effettiva [1]: è il progetto astratto del mondo, è il mondo pensato prima della sua realizzazione.

Poichè, per Hegel, la logica (= studio del pensiero) coincide con l’ontologia (= studio dell’essere), allora il pensiero (razionalità) e l’essere (realtà) coincidono. Pertanto, la logica non solo descrive le determinazioni, le strutture e le modalità di sviluppo del pensiero, ma rappresenta anche le determinazioni, le strutture e le modalità di sviluppo della realtà. In altre parole, l’idea è l’essenza della realtà (ciò che è razionale è reale, ciò che è reale è razionale), è lo scheletro, la struttura della realtà. Più vicino ad Aristotele, che aveva già stabilito l’identità tra logica e ontologia (ossia metafisica), Hegel si allontana da Kant, per il quale le categorie sono determinazioni solo del pensiero [2].

Anche nella logica Hegel procede per via dialettica: la dialettica, quindi, non è soltanto legge del pensiero ma anche la legge della realtà dal momento che anche la realtà segue un ritmo dialettico che la ragione ricostruisce e mostra [3]. Questo ritmo dialettico può essere paragonato ad una spirale dove ogni triade costituisce una anello via via più ampio e in questo senso la logica hegeliana può essere rappresentata come un dire la medesima cosa in maniera progressivamente più ricca. L’andamento complessivo è proprio quello di un andare dentro la realtà per scoprirvi il pensiero [4], fino al disvelamento totale della verità che è appunto l’idea nel suo complesso.

La Scienza della logica quindi segue i passaggi dialettici di tesi, antitesi e sintesi che corrispondono rispettivamente alla “dottrina dell’essere”, alla “dottrina dell’essenza”, alla “dottrina del concetto”. Il momento dell’essere è quello “intellettivo”, in cui le determinazioni figurano ancora nella loro astrattezza e immediatezza, quali le considerava la metafisica, cioè separate le une dalle altre; il momento dell’essenza è quello “dialettico”, che nega la staticità, l’astrattezza e l’isolamento e costringe a superare l’opposizione per giungere al momento del concetto che è quello “speculativo”, dove il sapere giunge ad un grado puramente razionale.

  1. Dottrina dell’ESSERE: nell’analisi dell’essere, Hegel prende in esame quelle che sono le sue determinazioni [5] più immediate, cioè le forme più elementari, astratte e povere del pensiero. Esse sono la qualità (il differenziare), la quantità (il contare) e la misura (il confrontare). L’essere determinato, infatti, è tale in virtù della qualità, della quantità e della misura.

La qualità è la determinazione indeterminata, cioè la determinazione concettuale più immediata e generica. La qualità specifica l’essere e lo rende finito. La conoscenza fondata sulla rappresentazione qualitativa, conduce ad una rappresentazione del mondo fondata su individualità sussistenti di per sè, come le monadi leibnitziane. La triade con cui comincia il movimento logico della categoria della qualità è costituita dall’essere, dal non essere e dal divenire.

  • Essere: è la categoria più vuota, povera e astratta, assolutamente indeterminata, priva di ogni possibile contenuto e come tale essa si dà in modo semplice ed immediato, senza identificarsi con questo o quell’essere particolare. Un qualcosa, infatti, è tale solo in quanto si distingue da tutte le altre cose per le sue qualità. In questo senso, la nozione di essere, in quanto priva di qualsiasi determinazione, cioè non determinata, predicabile per tutto, non avendo una realtà propria, coincide di fatto col nulla. In questo modo tutto è essere ma nulla lo è in modo esclusivo (si tratta di essere in generale e non di essere particolare).
  • Nulla: essere e nulla, contrapposti solo apparentemente, in realtà coincidono perchè dell’essere non si può predicare nulla senza con ciò stesso determinarlo. Quindi il concetto di essere è identico a se stesso ma anche al concetto del nulla. L’identità tra essere e nulla, a primo acchito talmente contraddittorio da risultare incomprensibile, è semplicemente un nuovo modo di vedere la realtà: un modo cioè dialettico. Per superare questa contraddizione, cioè l’identità tra essere–nulla, il pensiero deve trovare un concetto che li ricomprenda entrambi su un piano più elevato, un concetto che costituisca cioè la sintesi di essere e nulla. Questo concetto è il divenire.
  • Divenire: è l’unità di essere e nulla, in quanto il “divenire”, il “mutare” è essere e non essere contemporaneamente (ciò che diviene, infatti, è sempre se stesso ma non è più ciò che era prima). Il divenire è la reciproca trasformazione dell’essere nel non essere e viceversa. Ciò equivale a dire che la realtà si presenta sempre nella forma di un divenire: ciò che diviene infatti transita incessantemente dall’essere al nulla (muore) e dal nulla all’essere (nasce). Dal divenire viene il qualcosa: l’essere non è più indeterminato ma si determina.

la quantità corrisponde all’approccio meccanicistico al mondo;

la misura, la quale è data dal rapporto qualità-quantità e determina la quantità della qualità (il quanto qualitativo): nella realtà, ogni qualità sussiste in un certo grado, così come ogni quantità stabilisce il grado in cui sussiste una certa qualità. Il limite di Leibniz e del meccanicismo consiste di privilegiare un solo approccio, ignorando il rapporto che esiste tra quantità e qualità. La misura pertanto supera la contrapposizione tra quantità e qualità ma, in quanto mero ed estrinseco rapporto numerico, è inadeguata a cogliere l’autentico quid delle cose: l’Essere non può essere colto nelle sue caratteristiche immediate: qualità, quantità e misura. Tali categorie infatti si rivelano insoddisfacenti poiché considerano l’essere nel suo isolamento mentre l’essere determinato, che è sempre un’entità finita, non si può comprendere se non in riferimento ad altro. Questo “fallimento” determina il passaggio ad una nuova sezione della logica in cui assume rilevanza fondamentale “la verità dell’essere”, cioè l’essenza.

  1. Dottrina dell’ESSENZA: l’Essere, che è immediatezza, livello superficiale, si supera e trapassa nell’Essenza, che è il fondamento, la verità dell’Essere. Ciò avviene attraverso il momento della riflessione in cui l’Essere si ripiega su se stesso, finendosi per riconoscere uguale a se stesso e diverso dalle altre essenze. Nella logica dell’essenza, quindi, il pensiero si approfondisce, ossia cresce secondo la dimensione della profondità perché vuol vedere che cosa c’è sotto la superficie dell’essere e arrivare al fondo di esso, trovando la verità, il fondamento, le radici, l’Essenza stessa dell’Essere. L’essenza, però, non è rinchiusa in una definizione, ma si fa nel rapporto e nel conflitto, in un rapporto dialettico. L’essenza nasce quando il dato iniziale è messo in relazione con la negazione, cioè con il suo opposto, con la differenza (omnis determinatio est negatio). Nel momento in cui si definisce qualcosa in modo preciso, si esclude, cioè si negano tutte le altre determinazioni. Attraverso la negazione, ogni realtà definisce se stessa, ma al tempo stesso chiarisce le proprie relazioni con le altre realtà. La negazione, tuttavia, non nega mai tutto, nega sempre qualcosa di determinato, un contenuto particolare. Per questo è una negazione determinata. Quindi la negazione ha un ruolo positivo, dinamico e pone le basi per il superamento delle differenze, delle opposizioni, giungendo così ad una totalità superiore. Qui Hegel respinge la logica aristotelica fondata sul principio di identità (è A), di non contraddizione (A non è non A) e del terzo escluso (A o non A).
  1. Dottrina del CONCETTO: scaturisce dal superamento delle due precedenti fasi. Nella logica del concetto il pensiero raggiunge la sua compiutezza, ossia si attua l’identità tra pensiero e essere. Il concetto non è più il concetto dell’intelletto astratto e unilaterale, diviso dalla realtà e opposto ad essa, ma è l’idea, il concetto della ragione, che è il solo punto di vista della verità. Il Concetto è il pensiero stesso, è il Soggetto che autocreandosi crea tutte le determinazioni logiche, produce i suoi contenuti, si scopre insomma essere tutta la realtà. In altre parole, il pensiero, nel suo procedere, realizza se stesso e il proprio contenuto. La logica del concetto non sfugge alla consueta struttura tripartita e si divide in dottrina della soggettività, dottrina dell’oggettività e dottrina dell’idea. In altre parole, la dialettica del concetto mira nel suo complesso a un “riassorbimento” dell’oggettivo nel soggettivo e alla definitiva affermazione del sapere assoluto o spirito come soggetto o idea. L’idea è l’unificazione compiuta di pensiero e realtà: è la struttura dinamica dell’esistenza. Qui Hegel intende fornire una “dimostrazione” definitiva di quell’identità dialettica di soggetto e oggetto che costituisce il nucleo della sua filosofia: è la ragione, intesa come unità dell’ideale e del reale, del finito e dell’infinito, dell’anima e del corpo, del soggetto e dell’oggetto. Il concetto è l’Idea che si autocrea e autocreandosi crea la totalità della realtà in tutta la ricchezza delledeterminazioni logiche e relazioni interiori.

Hegel ha quindi ripristinato l’unità tra pensiero ed essere, considerando le idee non come qualcosa di astratto e irreale: esse infatti “hanno mani e piedi” per muoversi e agire nella realtà. Con ciò la struttura logica è completata: l’idea esce da sè, si spazializza, per diventare mondo, per uscire fuori di sè in direzione della natura.

[1] È la esposizione di Dio, come egli era nella sua eterna essenza prima della creazione della natura e di uno spirito finito. Questa asserzione non vuol dire ciò che significherebbe nel contesto della filosofia classico-cristiana, dato che per Hegel l’Assoluto è processo, è risultato del processo (autorisultato). Il Dioprima della creazione è in qualche modo un minus rispetto allo Spirito dopo la creazione in quanto rappresenta il momento della tesi, mentre il Dio dopo la creazione rappresenta il momento della sintesi. L’idea costituisce una sorta di progetto, il mondo pensato prima della sua realizzazione; tuttavia, questo progetto prima di diventare realtà, ha un proprio sviluppo, che ne determinerà tutte le articolazioni interne. La logica, oltre che scienza del pensiero è anche lo studio del definirsi dell’idea che diverrà mondo.

[2] Hegel biasima Kant per aver negato la possibilità di costruire una metafisica come scienza: per Hegel, infatti, un popolo senza metafisica è come un tempio senza altare.

[3] La differenza rispetto alla Fenomenologia sta che in questa il luogo in cui accade il movimento dialettico è il processo storico della cultura, mentre il luogo dove accade il movimento dialettico dellaLogica è il pensiero. Inoltre, gli oggetti del movimento dialettico della Fenomenologia sono le concezioni etiche, religiose e politiche, quelli del movimento dialettico della Logica sono i concetti, le categorie cioè le forme di organizzazione razionale del mondo.

[4] Qui c’è il mito della dea velata di Sais: arriva un discepolo che alza il velo e vede se stesso; all’interno della realtà si tratta di vedere il logos, la razionalità.

[5] Per Hegel una proprietà o determinazione acquista una certa stabilità, si mantiene cioè come tale, solo attraverso una sorta di battaglia, volta ad assicurarsi l’affermazione contro le infinite altre determinazioni che essa esclude da sé.

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